È possibile che su un fatto epocale come l’arresto di Totò Riina con il passare degli anni ci siano sempre più dubbi, invece che (almeno un po’ di) certezze? Evidentemente sì. Come per altre storie legate alla mafia, sono molti gli aspetti ancora da chiarire e che probabilmente non saranno mai del tutto chiariti di ciò che avvenne prima, durante e dopo il 15 gennaio 1993. C’è chi, come Massimo Giletti a “Non è l’Arena”, prova a far emergere alcune delle contraddizioni, sperando che prima o poi arrivino delle risposte.
Su La7 è stato trasmesso un video inedito del 2013 in cui il colonnello dei carabinieri Giuseppe De Donno ha risposto a una domanda di Massimiliano Di Pillo del Movimento Agenda Rossa sull’arresto di Riina e sulla mancata perquisizione del covo (“Come fa ad affermare che dentro l’appartamento di Riina non c’era nulla?”). Una domanda rivolta in realtà al generale Mario Mori, che nella replica però è stato “anticipato” di quello che è stato a lungo il suo braccio destro al Ros e al Sisde. De Donno dice in sintesi che quello che per tutti ritengono essere il covo di Riina in realtà era solo la casa della sua famiglia, mentre lui avrebbe vissuto altrove in un posto mai identificato. Inoltre aggiunge che tutti i documenti di Riina sarebbero stati e sequestrati al momento del suo arresto in auto. Parole che fanno trasalire molti addetti ai lavori ed esperti di mafia.
Chi è Mario Mori?
Il generale Mario Mori è stato comandante dei Ros (Raggruppamento operativo speciale dei carabinieri) e direttore del Sisde (Servizio per le informazioni e la sicurezza democratica, un servizio segreto italiano). Fu posto in congedo dall’Arma nell’ottobre 2001, quando fu nominato prefetto e direttore del Sisde. Dal 2008 al 2013 ha svolto attività di consulenza nel settore della sicurezza pubblica per conto dell’allora sindaco di Roma Gianni Alemanno. È stato assolto nel processo per favoreggiamento nei confronti di Cosa Nostra per la ritardata perquisizione del covo di Riina, in quello per favoreggiamento a Provenzano (l’accusa era di averne impedito la cattura nel 1995) e in quello sulla trattativa Stato-mafia, in tutti i casi perché “il fatto non costituisce reato”.
Chi è Giuseppe De Donno?
Giuseppe De Donno (da non confondere con il povero omonimo medico divenuto celebre durante il Covid e poi morto suicida) è un colonnello dei carabinieri che da oltre un decennio ha lasciato il servizio attivo “dopo aver comandato diversi nuclei operativi e – scriveva di sé presentandosi su un sito – aver prestato servizio per oltre 10 anni al ROS e 6 anni al Sisde. Ho collaborato con diverse Procure della Repubblica e svolto missioni operative in Europa, Medio Oriente ed Americhe, ma soprattutto ho lavorato alle dirette dipendenze del dott. Giovanni Falcone e del Generale Mario Mori. Ho tenuto corsi di formazione in diverse strutture universitarie e non e dopo una lunga esperienza con un’attività in proprio sempre nel mio ambito professionale, oggi sono il direttore della B.U. Sicurezza Integrata di Proger S.p.A”. Anche De Donno è stato assolto nel processo per la trattativa Stato-mafia.
Cosa ha detto di così sconvolgente De Donno?
“Quando fu arrestato Salvatore Riina noi abbiamo sequestrato, il collega Ultimo con i militari che quella mattina erano lì, abbiamo sequestrato a Riina una borsa di plastica (perché Riina da buon villano di Corleone non usa le valigette). Aveva nella sua macchina una borsa di plastica piena di pizzini, cioè piena di documenti che riguardavano collegamenti con politici, appalti, imprenditori e tutta una serie di attività economiche illecite che sono stati oggetto di sequestro, di una successiva indagine e di decine di arresti eseguiti nei mesi successivi. Per cui l’archivio reale di Riina noi l’abbiamo preso la mattina in cui lui viaggiava. Relativamente al problema della tinteggiatura del covo, questa è una teoria. Noi anche su questo c’è un processo, c’è una sentenza assolutamente ampia che descrive tutto questo. Un’altra cosa che la stampa non racconta è che quello non era il luogo in cui abitava Totò Riina: quello era il luogo in cui abitava la famiglia […] Il vero luogo di latitanza… Riina non viveva con la famiglia, viveva in un altro posto che noi non abbiamo mai identificato”.
E ancora: “Perché possiamo affermare che quello non era il luogo dove viveva Riina? Perché noi quel civico di via Bernini lo abbiamo filmato per una serie di settimane precedenti, per cui mai avevamo visto… C’era questa macchina che usciva, ma non avevamo identificato Ninetta Bagarella (la moglie, ndr), di cui non avevamo neanche una fotografia… Non abbiamo mai filmato una macchina con a bordo personaggi che poi risultavano Riina e Biondino che lo andò a prendere quella mattina. Per cui Riina si recava lì solo saltuariamente. Sulla base di questo fu fatta una riunione in Procura per cui noi proponemmo alla Procura della Repubblica la costituzione di un gruppo di lavoro che fu a me affidato per la direzione delle indagini sui fratelli Sansone. Cioè noi ipotizzammo esattamente questo, cioè abbiamo arrestato Riina, lo abbiamo arrestato a distanza, abbiamo preso la busta con tutti i suoi pizzini che sono una quantità enorme. A casa, quella è la casa della famiglia… Nella casa della famiglia i mafiosi in tutte le esperienze passate non sono mai stati recuperati documenti, armi, o cose particolari che mettono a rischio la famiglia, per cui non diamo la certezza che conosciamo dove abitava, e lavoriamo sui Sansone. Cioè volevamo riprendere ancora una volta il discorso, tant’è vero che il gruppo di lavoro fu avviato, iniziò una serie di attività che poi furono interrotte una settimana dopo perché Repubblica pubblicò il nome dei Sansone. Quindi questo tecnicamente è com’è andata”.
Secondo la “versione ufficiale” la videosorveglianza del cancello dal quale il 15 gennaio 1993 uscì Riina iniziò all’alba del 14 e finì nel tardo pomeriggio del 15 gennaio. Dopo la messa in onda De Donno si è “corretto”: “Ho sicuramente fatto confusione – le sue dichiarazioni all’Adnkronos – tra le attività di osservazione su imprenditori come i Ganci, durate molto tempo, e quelle svolte su via Bernini dove erano coinvolti gli imprenditori Sansone, e durate un paio di giorni”. Riferendosi alla villetta di via Bernini non perquisita subito dopo l’arresto (la mancata perquisizione finì a processo con imputati Mori e il capitano Ultimo, poi assolti), De Donno dice: “In quel comprensorio insistevano una serie di villette, in una delle quali abitava il boss e la sua famiglia e dove ribadisco, a mio giudizio, non credo ci fosse il covo di Salvatore Riina”.
Dopo aver sottolineato che comunque si tratta di argomenti “di oltre trent’anni fa”, il colonnello sostiene di voler offrire “una più corretta e completa informazione con riguardo alle frasi pronunciate in occasione della presentazione, anni fa, di un libro all’università di Chieti, e di cui si dato ampio risalto stampa, premesso che delle attività d’indagine dirette dal capitano Ultimo non conoscevo i dettagli operativi”. E aggiunge che “nella foga e nella necessaria sintesi del racconto ho evidentemente sovrapposto ricordi giungendo poi a parlare del gruppo di lavoro che era stato costituito con i carabinieri di Palermo e che avrei dovuto dirigere per indagare sul circuito economico e politico di riferimento per Cosa nostra, iniziando le attività di indagine dalla documentazione che il boss, da poco catturato, aveva con sé, fornendo inconsapevolmente elementi ad interpretazioni erronee e fuorvianti”.
È credibile la spiegazione di De Donno?
Per Giletti anche in questo qualcosa non torna.
L’ex pm Antonio Ingroia interrogò il capitano Ultimo proprio su questo punto: “Avevamo il problema di individuare dove abitava Ganci Raffaelle, e il problema era che non si prestava a un’osservazione sistematica e quindi tutta la nostra attività è stata condizionata dalla saltuarietà con la quale potevamo osservare, perché non si poteva restare a osservare fissi questa casa”. Perché, com’era? “La casa era messa in una situazione che se avessimo messo il furgone fisso lì saremmo stati individuati e quindi sarebbe stato pericoloso per il personale, ma soprattutto saremmo stati individuati dalla persona che dovevamo seguire, e quindi abbiamo fatto pochi pedinamenti su Ganci Raffaele”.
Per Giletti “era una strada strettissima e unica, quindi come dice Ultimo non si poteva mettere una sorveglianza”.
Per Ingroia “bisognerebbe non intervistare, ma interrogare forse il colonnello De Donno. Abbiamo una contraddizione sull’altra, rispetto a quale allora il sospetto viene che sia vera data al Movimento Agenda Rossa, ossia che ci sia una serie di filmati che poi siano finiti chissà dove. Questo è il sospetto legittimo di un ex pubblico ministero”.
Il covo di Riina (che oggi è una caserma dei carabinieri) non era il covo di Riina?
Tra i tanti sconcertati dalle dichiarazioni di De Donno c’è Felice Cavallaro, storico inviato del Corriere: “Non era la casa di Riina? Nel piano sottostante, dove c’erano le camere da letto, a fianco c’era una stanza con una porta blindata, quindi una stanza blindata, non solo la cassaforte che stava al piano zero.
E Giletti: “C’era anche un tunnel sotterraneo che dalla villa portava ai campi”.
Per l’avvocato Luigi Li Gotti, legale di vari pentiti vicini al boss, “non si è mai detto che quella non fosse l’abitazione di Totò Riina. I fatti oggettivi che noi sappiamo è che il 15 mattina lui esce da là”.
Inoltre in carcere Riina ha fatto capire a Lo Russo durante l’ora d’aria che lui il giorno della strage di Capaci era lì (con il figlio e la moglie Ninetta).
Perché non è stato perquisito subito il covo di Riina?
Per Mori era una normale prassi investigativa. “Applicavamo il nostro metodo operativo – diceva Mori a Minoli nel 2018 – affrontando un gruppo di persone costituite in un’organizzazione, quando si decideva di intervenire d’accordo con il magistrato, bisognava sempre lasciare un filo di collegamento con il proseguo dell’indagine. Un esempio: avevamo individuato cinque brigatisti? Ne arrestavamo quattro, perché il quinto ci serviva per rimanere in contatto con l’organizzazione”.
L’ex procuratore capo di Palermo Giancarlo Caselli spiega che il motivo era che “bisognava ritardare per poter continuare a lavorare fino a disarticolare la struttura economica di Riina”. Per Caselli i Ros sostenevano che “bisognava evitare ogni intervento immediato o comunque affrettato per non pregiudicare ulteriori importanti acquisizioni che dovevano consentire di disarticolare la struttura economica e operativa facente capo a Riina”.
L’ex pm Antonio Ingroia sottolinea che, pur nell’assoluzione degli ufficiali, nella sentenza si legge che la mancata perquisizione “fu un segnale di dialogo che si mandava alla parte più trattativista di Cosa Nostra, quella di Provenzano”.
Chi decise di rimandare la perquisizione del covo?
Mori da Minoli ha confermato di essere stato lui, “d’intesa con i magistrati che erano presenti”.
Non perquisire il covo è stata una cazzata?
“Sostanzialmente avete fatto una cazzata”, diceva Minoli a Mori (“assolutamente no”, la sua risposta). “I corleonesi un po’ vi hanno fregato, mi pare”. “No, eravamo noi che volevamo fregare i corleonesi”. “Eh però ce l’hanno fatta loro…” “Non è che ce l’hanno fatta loro, noi avevamo già gli elementi per lavorare”.
Il procuratore Caselli era d’accordo con Mori?
Per Mori, Caselli “conosceva molto bene le tecniche dei reparti anticrimine e quindi ritenevo che avesse inquadrato bene la situazione”. Ma era d’accordo? “Sì, siamo stati sempre d’accordo”, diceva Mori a Minoli.
“Quando il 15 gennaio 1993 atterro a Palermo – dice ora l’ex procuratore capo Caselli a “Non è l’Arena” – la prima cosa che mi dicono è che è stato arrestato Riina. È un momento di grande euforia, ma anche di grande confusione. Nel corso della giornata si organizza fa magistrati della Procura, carabinieri della cosiddetta Arma territoriale e carabinieri del Ros. I pm volevano perquisire subito, ma i Ros (in particolare il capitano Ultimo, Sergio De Caprio), insistono perché la perquisizione sia ritardata. E questa prospettiva di De Caprio è fatta propria dal suo comandante Mori. Ultimo era in quel momento, e per tanti è ancora oggi, un eroe nazionale, l’uomo che aveva messo le manette a Riina, al capo dei capi imprendibile, quindi le parole di Ultimo avevano un peso speciale, dunque prevale la decisione di ritardare, nella convinzione (per quanto riguarda i pm) che la zona in cui si trovava il covo sarebbe stata costantemente sorvegliata e attentamente sorvegliata. E invece così non avviene, qualcosa non funziona nei rapporti tra Ros e Arma territoriale, e soprattutto nei rapporti tra Ros e Procura”.
Quanto alla mancata comunicazione della sospensione della sorveglianza, Caselli sottolinea che “chi ha operato ha sicuramente inteso di potersi muovere in uno spazio di autonomia decisionale consentito. In altre parole, i Ros avevano deciso senza avvertirci, convinti di poterlo fare in forza della loro autonomia”. Una volta scoperto che la sorveglianza era stata tolta, Caselli dice di aver reagito, come tutti i colleghi della Procura, “con sgomento e preoccupazione. Il palazzo di giustizia di Palermo, e in particolare la Procura, era ancora il palazzo dei veleni, dei corvi, delle contrapposizioni dirompenti, cascami dei forti contrasti che avevano portato Falcone a lasciare Palermo ed emigrare a Roma o delle forti contrapposizioni che avevano fatto sì che Borsellino in Procura non fosse troppo ben visto. Come finisce la storia è purtroppo noto. Quando finalmente si entra nell’abitazione-covo di Riina ormai tutto è stato ripulito scientificamente, purtroppo”.
Per la giornalista esperta di mafia Sandra Amurri e per Ingroia Caselli si fidava di Mori, e Mori avrebbe tradito la sua fiducia.
Perché, visto che il covo di Riina non è stato perquisito per continuare il controllo, il controllo è stato tolto senza comunicarlo?
Per Mori, secondo quanto riferito da Giletti a “Non è l’Arena”, a un certo punto hanno smesso di fare i controlli perché si era diffusa la notizia che in via Bernini ci fosse il covo di Totò Riina e che quindi continuare sarebbe stato inutile.
Per Domenico Balsamo, all’epoca ufficiale della territoriale, quelli del Ros “erano molto liberi e prendevano decisioni che, come si è visto nel corso degli anni, non sempre sono state condivise”.
Queste le parole di Mori in un interrogatorio: “Nel circolo ufficiali quando si parlò di queste cose riconosco che forse bisognava essere più dettagliati e più precisi su quello che era l’intento nostro, ma intanto noi presupponevamo di essere stati espliciti e di aver fatto capire qual era il nostro intento e come lo volevamo realizzare, perché tecnicamente non si poteva realizzare in via Bernini un servizio di osservazione protratto nel tempo, perché era aleatorio negli esiti, perché non avrebbe consentito di individuare le persone che uscivano e accedevano da e per l’abitazione di Riina, che al momento non era ancora individuata, e la presenza di un dispositivo oltre a un furgone prevedeva una macchina d’appoggio, che era il minimo, avrebbe resistito come copertura ben poco. Noi non volevamo continuare l’osservazione, noi volevamo continuare il controllo sul contesto rappresentato dai fratelli Sansone, quale direttrice fondamentale dello sviluppo delle indagini conseguenti all’arresto di Riina”.
“L’osservazione per Mori era inutile, e la perquisizione in che modo ostacolava il controllo sui Sansone?”, si chiede Ingroia. “Questo ancora oggi trent’anni dopo, non arriviamo a saperlo”.
Chi e perché ha detto ai giornalisti di andare in via Bernini (se bisognava tenere tutto nascosto per continuare l’osservazione)?
Qualcuno all’epoca avrebbe detto a una reporter, Alessandra Ziniti, ora a Repubblica, “vai in via Bernini”, e pare assurdo visto che tutto doveva rimanere segreto. “Ebbi indicazione precisa, lavorando in tv e dovendomi muovere con le telecamere”, le parole della giornalista? A suo dire l’indicazione arrivò “dal maggiore Ripollino, l’ufficiale dei carabinieri che a quel tempo teneva i contatti con i carabinieri. Non era una comunicazione ufficiale, erano uno dei rapporti che si instaurano lavorativamente, non fu convocata conferenza stampa per dire che la casa era lì”. Una notizia data anche ad altri? “Immagino di sì, perché quando arrivai in via Bernini c’erano molti colleghi, alcuni mi dissero di averlo saputo a loro volta dal maggiore Ripollino”.
“Anche lì – le parole di Giletti – Mori mi lascia un po’ perplesso, se si leggono le carte. Sappiamo con certezza che l’osservazione di via Bernini viene tolta nelle primissime ore del pomeriggio, non il giorno dopo. Del covo si sa il 16, ma già nel primo pomeriggio del 15 non ci sono più i carabinieri del Ros a controllare”. “Tra le 15 e le 16 del giorno prima”, conferma Ingroia. “Hanno smesso di controllarla da subito”: per Giletti è questo l’incredibile.
Perché Mori non è stato subito indagato?
Amurri sottolinea che l’avviso di garanzia a Mori è stato mandato due anni dopo. Ingroia spiega che “l’indagine è stata aperta dopo dichiarazioni di collaboratori di giustizia che hanno inquadrato il motivo della mancata perquisizione, che c’erano documenti scottanti. Col senno del poi è tutto facile”.
I Ros potevano decidere autonomamente senza rendere conto alla Procura?
Per Ingroia no, “ma non è una violazione penale però, è una violazione disciplinare. Diventa penale se dimostri che è fatto per favorire gli uomini di Cosa Nostra. E noi nel ’93 potevamo accusare Mori di questo? Dai, non diciamo sciocchezze”.
L’archivio di Riina era tutto nella sua macchina?
De Donno nel filmato del 2013 dice che Riina fu preso “con tutti i suoi pizzini che sono una quantità enorme”.
Per Ingroia però Riina si ero portato con sé una sorta di promemoria per la riunione (con altri mafiosi, ndr), figuriamoci se si era portato tutto l’archivio”
Li Gotti: “Pensare che Totò Riina si portasse l’archivio in una busta… Aveva una cassaforte in casa proprio per tenere questa documentazione, la documentazione, e questa documentazione è sparita, non è stato trovato nulla nella cassaforte [dai Ros 18 giorni dopo la cattura, anche perché era stata aperta]. Aperta da mani esperte”.
Cosa c’era nella cassaforte di Riina?
Li Gotti: “Io personalmente non escluderei anche l’agenda rossa, e comunque altri documenti compromettenti, che sono finiti nelle mani certamente di chi ha fatto questa operazione di rimozione della serratura”.
Chi ha preso l’agenda rossa di Borsellino e i documenti dell’archivio di Riina?
Li Gotti: “Possono essere finiti nelle mani di qualche mafioso, di Provenzano. Possono essere finiti anche nelle mani di qualche pezzo delle istituzioni”.
Perché De Donno cambia versione?
Per Sandra Amurri “assistere a tutte queste versioni” è “un insulto all’intelligenza altrui”.
Ingroia: “È stato il braccio destro di Mori. Scarterei l’ipotesi che sia svagato. De Donno è lo stesso che aveva detto sotto il famoso albero che qualcuno doveva scappare perché c’era la prova di incontri con Riina”.
Perché il Parlamento non costituisce la commissione antimafia?
Cavallaro sottolinea che tutti questi dubbi dovrebbero essere affrontati non tanto o non solo da “Non è l’Arena”, che comunque sta facendo un grande lavoro per accendere i riflettori su queste pagine ancora oscuri, ma l’apposita commissione parlamentare: “Quella commissione parlamentare antimafia che dopo cinque mesi dalle elezioni ancora il Parlamento non costituisce. Perché quello sarebbe il luogo in cui raccontare tutte queste cose, a una commissione che avrebbe anche dei poteri, perché la falsa testimonianza non è ammessa in commissione. Però questo Parlamento non riesce a scuotersi”.