Sulle prime è stato l’impulso di aprire il PC e vomitare parole. Era il 3 dicembre e nel giro di poche ore le agenzie hanno battuto la notizia della condanna confermata (anche se ridotta) per Mario Roggero – che sparò, uccidendoli, ai rapinatori che avevano fatto irruzione nella sua gioielleria - e quella dell’iscrizione nel registro degli indagati di sette carabinieri per le indagini sulla morte di Ramy Elgaml che, in sella a uno scooter guidato da un suo amico, ha perso la vita dopo una caduta che ha messo fine a una folle fuga di 8 km. Adesso è passato qualche giorno, l’emotività s’è sedimentata, ma l’amarezza per quelle due notizie sparate così in una sola giornata è rimasta. Insieme al tarlo di una riflessione. O, meglio, al fastidio di una domanda: quanto può risultare ingiusta la giustizia? Sì, perché c’è un punto nella parabola delle nostre democrazie in cui la giustizia diverge dal sentire, dal pensiero comune e, in qualche modo, pure dall’umanità. E è in quel punto che si collocano le vicende di Mario Roggero e dei sette carabinieri indagati fino a chiedersi se può una giustizia che colpisce chi si difende e chi ci difende dirsi davvero giusta.
Roggero, gioielliere di Grinzane Cavour, il 28 aprile 2021 vide precipitare la sua esistenza in una manciata di secondi. L’irruzione dei rapinatori. L’arma puntata in faccia. Il terrore di morire. Quei secondi hanno poi occupato anni di aule giudiziarie, perizie, interrogativi. L’ultima parola – o meglio, l’ultima provvisoria parola – è arrivata con la condanna in appello a 14 anni e 9 mesi (in primo grado erano stati 17). Una sentenza che Roggero ha accolto con amarezza, denunciando “il mancato coraggio” dei giudici e ribadendo una verità che per lui – e forse non solo per lui – è intima e inscalfibile: “Era legittima difesa. Ho sparato per non essere ucciso”.
È difficile non avvertire, leggendo i passaggi della sua lunga dichiarazione spontanea, una nota di disperazione. Il racconto del conto alla rovescia pronunciato dal rapinatore, della mascherina caduta che rendeva i volti riconoscibili, dell’arma premuta contro la fronte: elementi che rovesciano la scena dalla parte dell’uomo che teme di non vedere più sua moglie, di non rivedere più la luce. Eppure, nella logica del diritto, quegli attimi sono stati scomposti. Resi freddi. Analizzati. Ricomposti in un collage che attribuisce a Roggero non il ruolo della vittima, ma quello dell’omicida.
Per Roggero c’è una seconda condanna. E si andrà avanti. Per otto persone, sette carabinieri e un pregiudicato, s’è invece formalmente aperta la strada verso un processo. Sempre il 3 dicembre. Questa volta per i fatti avvenuti nella notte in cui Ramy Elgaml, diciannove anni, muore dopo un inseguimento – folle e contromano - di otto chilometri nelle strade di Milano. Anche qui: versioni che si dividono e responsabilità si intrecciano oltre l’inconsistenza di una verità immediata. I sette carabinieri indagati – insieme al giovane che guidava lo scooter – si trovano oggi a fronteggiare accuse pesanti, ma tristemente messe sullo stesso livello: l’omicidio stradale come depistaggio (che resta e resta gravissimo). Ma a colpire, in questa storia, non è solo la dinamica dell’incidente: è l’idea che chi indossa un’uniforme possa, nel giro di poche ore, essere sgretolato nella sua funzione. Senza separazione tra chi protegge (magari male) e chi minaccia.
È qui che le due vicende, quella di Roggero e quella dei sette carabinieri, si toccano. Da un lato un uomo che reagisce per istinto, dall’altro uomini che comunque agiscono per dovere. Non si tratta di assolvere nessuno. Né Roggero, né i carabinieri, né chi ha infranto la legalità mettendo in moto tragedie che nessuna sentenza potrà riparare. Si tratta di osservare un fenomeno più profondo: la trasformazione della giustizia in un sistema che sembra punire non la colpa. Ma l’imperfezione. La fragilità umana. La paura. L’azione emotiva e concitata nel caos. Per non sbagliare, è come se la giustizia preferisca irrigidirsi in un dispositivo astratto, incapace di misurare ciò che nessun codice ha saputo mai quantificare: il timore della morte, la stanchezza, il panico, la velocità cieca delle scelte fatte in un lampo. Ma che civiltà è quella che giudica senza interrogarsi attraverso il filtro dell’umanità?
Se lo chiedeva già un certo Socrate. “E’ meglio subire un’ingiustizia che commetterla”, ma cosa accade quando chi non vuole commettere ingiustizia si trova accusato di averne commessa una? Quando la linea che separa difesa e offesa viene tracciata retrospettivamente, seduti a distanza di anni, in una sala illuminata in cui è scritto “la legge è uguale per tutti”, lontani mille miglia dal buio e dal caos in cui tutto è accaduto? Forse, allora, chiamarla ancora giustizia non basta. O forse occorrerebbe restituirle il coraggio di guardare negli occhi ciò che è umano. E dunque fallibile, imprevedibile, vulnerabile. La civiltà non si misura solo nella rigidità delle sue norme, ma nella capacità di distinguere il male dal tragico. Il dolo dalla paura. L’abuso dall’errore. Insomma, tra ciò che dovrebbe essere e ciò siamo diventati.