La tv è un po’ la figlia scema dei giornali. E un certo modello di business televisivo ha fatto di tutto per renderla ancora più scema. Dal trash talk del primo decennio del Duemila, che raggiunse il suo apice grazie al liberatorio Vaffa-day dei grillini trasmesso e ritrasmesso nei tg, e che inaugurò contestualmente la grande stagione del M5S in televisione (ricordate quando non accettavano inviti con un contraddittorio, risultando più trash di chi li avrebbe insultati o asfaltati?), ci volle poco, però, a passare a quella stramba forma di adattamento antropologico, quasi evolutivo, che vediamo oggi nei nostri talkshow. Così si è passati dal credere che la tv potesse generare scemenze utili all’intrattenimento, all’incapacità di gestire gli spazi televisivi a prescindere da queste. In altre parole: la scemenza è diventata necessaria. Lo dimostra la domenica nera di La7, che si apre con lo scontro in diretta tra Daniele Capezzone e Luca Telese e si chiude, sempre in diretta, con Francesco Giubilei che riesce a fare alzare la pur paziente Francesca Albanese. Un po’ di contesto. Entrambe le discussioni riguardavano Israele e Palestina. In particolare la Global Sumud Flotilla (a Omnibus) e il genocidio in corso (a In onda). Valga una premessa: la scemenza è la scena che coinvolge tutti gli interlocutori e, diciamolo, piace a ognuno di loro.
Primo spezzone: Daniele Capezzone insinua ancora una volta che la Global Sumud Flotilla sia un progetto finanziato da Hamas. Con tutte le inferenze a cascata che ciò comporta (i sostenitori sono sostenitori del terrorismo, i flottiglieri sono in realtà al soldo del terrorismo o ingenui ingannati per via della loro stupidità da progressisti, e così via). Luca Telese s’alza, s’alza e si dirige verso il direttore editoriale di Libero, per mostrargli la prima pagina di un quotidiano. Gli dice anche di tacere e di stare a cuccia, ma Capezzone fraintende e crede che Telese si sia rivolto alla conduttrice. Così Capezzone s’alza, s’alzano tutti, pare quasi voglia confrontarsi fisicamente con il collega, gli dà del “fascista rosso” e lo manda a cagare. Luca Telese, che nel mentre dà a Capezzone del “buffone”, se ne va dallo studio. Secondo spezzone: Francesco Giubilei, della Giubilei Regnani Editore, leader culturale dei nuovi conservatori d’Italia, da Nazione futura in giù, sostiene che non sia in corso un genocidio. Accanto ha Francesca Albanese, la relatrice delle Nazioni Unite più tartassata d’Italia (e forse l’unica che il grande pubblico conosca), autrice dell’inchiesta (perché non era semplice un report) su quella che ha definito “economia del genocidio”. Giubilei sfrutta un’arma retorica molto comoda e, diciamolo, un bel po’ scorretta: “Sul genocidio la penso come la senatrice a vita Liliana Segre”. Insomma, si è giocato la carta della sopravvissuta all’Olocausto, nonostante le opinioni di Segre non siano automaticamente indice di qualità (esattamente come nessuno prende sul serio le opinioni di un malato di cancro se deve riconsocere il cancro in un’altra persona).
Ora, a cosa abbiamo assistito esattamente? Alla diffusione di post-verità da parte di due intellettuali di destra. Il “post” di “post-verità” è, evidentemente, molto simile a quello di “postmodernismo”. Ovvero: una liquefazione della verità, così come si stava liquefacendo la modernità (si legga Baumann in proposito). Non si tratta di dire cose false, ma si tratta di convivere con un intero sistema di credenze basato sulla falsità o, quantomeno, sulla non-verità. La tv è un ambiente monitorato all’interno del quale si può osservare in forma di microcosmo il comportamento della nostra società, perfettamente adattato per reggere discorsi in cui non è la verità che conta, ma solo il modo in cui dici certe cose e quanto fai incazzare l’altro, a prescindere da quanto siano verificate o meno. Si chieda a Capezzone con quanti dollari o euro Hamas avrebbe finanziato la Global Sumud Flotilla, o chi avrebbe pagato, o cosa avrebbe comprato (le barche, i capitani delle navi?). Si chieda a Giubilei se, oltre alle parole di Liliana Segre, abbia letto l’indagine indipendente fatta per l’Onu che giudica consistente l’ipotesi del genocidio, o le interviste di alcuni dei maggiori studiosi del campo a livello internazionale. Si chieda anche solo semplicemente se Giubilei abbia letto le opinioni di veri esperti che la pensano come lui, come Deborah Lipstadt per esempio. Perché non si tratta più neanche di capire chi ha ragione o no, ma che spessore ha una dichiarazione fatta in tv. Lo spessore, ecco, è pari a zero. O tendente allo zero.
Ecco perché Luca Telese, e ancora di più Francesca Albanese, si alzano. Le boutade a favore di telecamera di Giubilei e Capezzone, l’uso di formulette retoriche e trucchi da campagna elettorale e tutto ciò che ne segue, sono diventati intollerabili. Lo sono dopo due anni per chi come Francesca Albanese sta lavorando contro questo massacro da sempre. Ma, ed è questo ciò che conta, lo è per chiunque abbia assorbito e giudicato accettabile, se non addirittura eroica, la reazione di Enzo Iacchetti, che in questo senso ha fatto scuola, segnando un prima e un dopo nel dibattito televisivo sul conflitto israelopalestinese: con chi fa propaganda non si discute. Non c’è più niente da discutere. E in effetti è così. Dopo due anni persino chi poteva pensarla come Giubilei o Capezzone si ritrova incapace, davvero, di sostenere un discorso filoisraeliano senza sentire la necessità di ricorrere a queste scappatoie dialettiche. Per questo si cerca sempre di virare su altri argomenti: gli amici arabi di Francesca Albanese, i finanziamenti poco chiari della Gsf e così via. E per questo chi per due anni si è speso a favore di una causa, come quella della pace in Medio Oriente, sente forse che il suo lavoro dopotutto è finito, che chi voleva e poteva ormai ha capito quello che c’era da capire. Allora, proprio come con il postmodernismo, che, parola di Jeffrey Stuart, si è reso convincete solo quando si è trasformato in formula artistica, che so, magliette griffate con scritto “stop al privilegio di classe”, la postverità televisiva è ormai diventata un’arte che persone più pazienti di noi potrebbero analizzare, così da tirarci fuori uno o due manuali di retorica a uso di chi sta sulla barricada, a destra e a sinistra, e si trova costretto a indossare una maschera che mai può togliere, neanche quando l’evidenza gliela renderà insostenibile.
