Francesca Albanese è stata sanzionata dagli Stati Uniti. Marco Rubio, il segretario di Stato americano, la definisce una “antisemita” che sta conducendo “una campagna di guerra politica ed economica contro gli Stati Uniti e Israele”. In particolare, avrebbe “minacciato l’interesse nazionale e la sovranità degli Stati Uniti” con l’ultimo rapporto depositato alle Nazioni Unite sulle aziende coinvolte e legate all’economia di guerra israeliana, quella che l’esperta definisce “economia del genocidio” (ma non esiste ancora una sentenza della Corte penale internazionale in proposito; anche per colpa di Israele, che sta tardando ad applicare le condizioni imposte dagli organi internazionali che chiedono di monitorare la situazione a Gaza). Le sanzioni non sono state specificate, ma probabilmente Albanese non potrà mettere piede su suolo statunitense ed eventuali beni di sua proprietà sul territorio americano verranno congelati. Per la relatrice speciale dell’Onu si tratta di “intimidazioni mafiose”. Ha ragione. L’amministrazione Trump sta dicendo chiaramente che un’esperta indipendente delle Nazioni Uniti non può mettere bocca su temi legati agli Stati Uniti o agli interessi statunitensi. E quindi non può parlare di quello che accade in Medio Oriente, nonostante sia esattamente ciò che le viene chiesto di fare. Sulla retorica della prima potenza mondiale legibus solutus concordano critici e sostenitori americani: l’America si sente intoccabile da sempre. L’America di Trump lo dice solo in modo esplicito. È l’elefante nella stanza di cristallo, avanza con aggressività burbera.

Ma l’America che sanziona Francesca Albanese è come l’Algeria che incarcera gli scrittori. Il rapporto di Albanese va confutato, criticato, smontato. Come i libri di Gore Vidal o i documentari della Bbc. Non va criminalizzato. L’8 ottobre 2024 la relatrice speciale sulla violenza contro le donne Reem Alsalem ha reso pubblico un rapporto sulla violenza di genere nello sport, in cui si sosteneva, tra le altre cose, che molte donne abbiano rinunciato a competere per paura degli uomini che gareggiavano nelle loro categorie. Questo rapporto deve piacere all’amministrazione Trump che da mesi sta portando avanti una battaglia contro la comunità lgbtqia+. Questi rapporti normalmente hanno un notevole apparato di note, citano le fonti e sono molto chiari negli intenti e nelle conclusioni. Sono quindi facilmente criticabili o apprezzabili. In altre parole, sono un ottimo “manufatto democratico”. Cosa succede allora se qualcuno scegliesse di punire gli autori di questi rapporti per via del loro contenuto? Cosa succede, cioè, se un “manufatto democratico” diventa un oggetto da incriminare? Se in un mondo possibile a tinte arcobaleno gli Stati Uniti avessero scelto di sanzionare Alsalem per il rapporto “transfobico” e non Francesca Albanese, chi oggi – nel mondo neocon e Maga – festeggia, cosa avrebbe detto? Come si vede, non è necessario parlare del conflitto israelo-palestinese, divenuto ormai incomprensibile. Così come non servirebbe parlare di equità nello sport per difendere Alsalem. La libertà espressione è, secondo il famoso schema di Isaiah Berlin, una libertà negativa, e cioè una libertà formale. Non può essere negata per quel che uno sostiene, perché non c’entra con il merito di ciò che si dice, ma solo con la possibilità di dirlo.
