Chiunque abbia studiato filosofia negli ultimi anni avrà sentito nominare Alex Byrne, uno dei più importanti filosofi analitici contemporanei. Filosofo della mente, della conoscenza e di metafisica, insegna al Mit e di recente ha pubblicato un libro incredibile, eccellente: Trouble with gender (Polity, 2023). La tesi centrale è che l’uso di molti termini nel nuovo vocabolario transfemminista siano sostanzialmente ambigui, problematici o concettualmente vuoti, al punto da creare confusione nei dibattiti. Un esempio chiaro: la maggior parte delle volte usare il termine “genere” non serve a niente. I sessi sono due, gli individui intersessuali sono pochissimi. Tutte tesi fuorimoda, considerate controverse dai battaglioni woke, nonostante siano espressione dell’attuale consenso scientifico. Bene, Alex Byrne ha anche ammesso di aver partecipato alla stesura di un rapporto del Dipartimento della salute americano sui trattamenti medici di transizione per i bambini. Lo studio dimostrava, come già chiarito dal Cass Report pubblicato in Uk, che la medicina di transizione per i bambini potrebbe non portare alcun beneficio. Anzi, potrebbe essere dannosa (grazie ai Wpath Files, inoltre, sappiamo che quasi sicuramente potrebbe essere immorale). Il coraggio delle idee, avrebbero detto un tempo gli intellettuali e i filosofi. Oggi, invece, intellettuali e filosofi firmano una lettera ridicola contro un loro collega, sentendo la strana necessità di dover prendere le distanze dalle sue posizioni “trans-escludenti”.
Nella lettera si legge: “Sebbene non stiamo qui chiedendo sanzioni ufficiali o non ufficiali, noi sottoscritti crediamo che il vostro comportamento (a) perpetui il danno nei confronti della comunità trans; (b) costituisca un fallimento nel rispettare le vostre responsabilità di accademici; (c) sia il risultato di una decisione estremamente sbagliata di collaborare con l'amministrazione Trump”. L’ultimo punto si spiega facilmente: poiché il report è stato chiesto da Trump, che ha imposto una scadenza particolarmente stringente, allora le 409 pagine del rapporto sarebbero invalide. Aver collaborato significa aver aiutato Trump. Collaborare con il governo degli Stati Uniti, evidentemente, è un problema in sé per i tanti filosofi e professori che hanno firmato l’attacco a Byrne. Esperimento mentale (un tipo di esercizio filosofico particolarmente efficace che si dovrebbe imparare nei primi anni di università): poniamo che il report di 400 pagine avesse portato a conclusioni diametralmente opposte a quelle presentate. La collaborazione con l’amministrazione Trump sarebbe stata comunque un problema in sé?

Il punto (b) è altrettanto semplice: a quanto pare per i colleghi di Byrne esercitare la riflessione critica e collaborare a progetti, studi e lavori di natura scientifica significa calpestare le proprie responsabilità scientifiche. È ridicolo pensare che l’aspetto problematico, secondo i colleghi di Byrne, sia il fatto che, pur facendo uso della sua libertà accademica, il filosofo abbia fallito “nell’esercitare l’autodisciplina critica”, cioè qualcosa che per definizione riguarda se stessi e non può essere giudicata esternamente. Avete capito bene. La famosa auto-disciplina che viene giudicata dagli altri. Il punto (a) è il più interessante e ha a che fare con altri due casi. Quello di Imane Khelif e quello di Carole Hooven, la moglie di Byrne. Del caso Khelif chi legge MOW sa tutto, non serve tornarci sopra. Ma ora è evidente cosa ci sia dietro all’ideologia che ha sostenuto l’atleta del club algerino alle Olimpiadi di Parigi 2024. Certo, lei non era trans, nonostante le prime accuse mosse da qualche canale alt-right puntassero verso questa ipotesi. Imane Khelif, se il certificato medico reso pubblico venisse verificato, sarebbe semplicemente un maschio con un raro disturbo dello sviluppo sessuale maschile, il deficit della 5-alpha reduttasi. Chi l’ha difesa, fregandosene della scienza – per esempio confondendo questo dsd con la Sindrome di Morris o usando intersex come termine ombrello per giustificare qualsiasi procedura apparentemente progressista (in realtà oscurantista, perché si stava negando la scienza) – ha puntato molto sulla sofferenza inflitta a Khelif e sulla paura infusa nella comunità marginalizzata, anch’essa definita in modo improprio “lgbtqia+” (quando non è chiaro cosa abbiano in comune un omosessuale o una persona intersex).

In altre parole sarebbe stato sbagliato accanirsi su questa vicenda, perché il clamore mediatico e la polemica non solo stavano ferendo l’atleta, ma stavano mettendo in allarme un’intera comunità che da quel momento in poi si sarebbe sentita più insicura e discriminata. Questo tipo di retorica è ormai il cavallo di battaglia della culture war intersezionale. Non contano gli argomenti: conta cosa pesti. Se pesti “merdoni scientifici” va tutto bene, sei uno dei buoni. Se pesti i piedi a qualsiasi persona autodefinitasi “vittima” allora sei un bastardo. È quello che successe ai critici di Imane Khelif e del Comitato olimpico, è quello che sta succedendo ad Alex Byrne. Ed è quello che è successo a sua moglie, Carole Hooven. Biologa evoluzionista, autrice di un saggio sul testosterone, ricercatrice e docente a Harvard. Come lei stessa racconta a Free Press, è rimasta intrappolata in una rete burocratica per aver espresso fatti banali sulla biologia umana, tanto che le proteste, le pressioni inclusive e le critiche l’hanno spinta ad andarsene dall’Università. Semplici fatti che avrebbero urtato la sensibilità. Il paradigma della vittima, che di recente è stato descritto magistralmente dal filosofo francese Pascal Bruckner in Povero me! (Guanda, 2025), è egemonico. In Uk i professori sono costretti a dimettersi, in Italia le fondazioni culturali (come la Fondazione Feltrinelli) e i club in cui si organizzano eventi (come il Monk di Roma) censurano e cancellano gli intellettuali. Sia Carole Hooven che Alex Byrne, d’altronde, avevano discusso anche il caso Imane Khelif, mostrando come a mancare fosse la chiarezza (Byrne) e la competenza (Hooven) dei sostenitori delle tesi woke. Evidente ai professori che firmano lettere pro-censura questo non interessa granché. Anzi, vorrebbero che accanto alla chiarezza e alla competenza, a mancare fosse anche la libertà.

