A dirlo è la psicologa Annamaria Casale, a Quarto Grado. Impronte, pigiami insanguinati e una scena del crimine calpestata da troppi. Alberto Stasi condannato, ma le domande restano tutte.
E dopo 18 anni, il delitto di Garlasco è ancora un mistero…
Un delitto d’impeto, ma lucidissimo. O almeno così sembra. Chi ha ucciso Chiara Poggi, quella mattina del 13 agosto 2007, non ha perso del tutto il controllo. O meglio: ha agito con furia, ma senza dimenticarsi di cancellare le tracce. A dirlo, quasi diciotto anni dopo, è la psicologa Annamaria Casale, ospite di Quarto Grado, che ha provato a tratteggiare il profilo dell’assassino. “Ha agito sicuramente in maniera impulsiva”, dice la Casale, che però sottolinea anche un altro dettaglio, decisivo: “È stato molto attento a ripulirsi per bene le mani”. Due elementi che sembrano in contraddizione, ma che in realtà, nel racconto del delitto di Garlasco, si tengono insieme. Perché l’assassino ha colpito con violenza – tanti i colpi, uno dopo l’altro, al volto e alla testa – ma dopo ha avuto la lucidità di “ripulirsi le mani imbrattate di sangue”. Segno che non tutto era fuori controllo. Del resto, è lì che si gioca la sottile linea tra follia e freddezza: tra il gesto di impulso e la capacità di cancellarne i segni. Un’ipotesi supportata anche dalla scena del crimine: c'è sangue ovunque, ma sulle mani dell’assassino non è rimasto nulla. Quasi. “Ci sono delle impronte insanguinate di quattro dita sulla spalla del pigiama distrutto della vittima”, ricorda la psicologa. Una traccia minima, ma pesante.


Poi ci sono le impronte delle scarpe. O meglio: l’assenza. Ed è qui che il discorso vira su chi è finito in carcere per quel delitto. Alberto Stasi, l’allora fidanzato di Chiara, è stato condannato in via definitiva nel 2015 a 16 anni e 8 mesi. Una delle prove che hanno contribuito alla sentenza? L’assenza di sangue sulle sue scarpe. Un’assenza sospetta. Come se avesse camminato nel villino di via Pascoli senza calpestare le pozze ematiche. Oppure – altra ipotesi – senza scarpe. La Casale, però, tiene il punto: “Ahinoi, la scena è stata calpestata più volte”. Un dettaglio che non aiuta. Investigatori, soccorritori, curiosi: tutti dentro casa, tutti sul pavimento. Non si sa se ci siano altre impronte di scarpe, o se ci fossero. Ma la confusione è diventata un’arma a doppio taglio. Come spesso accade in questi casi, dove la prima cosa che salta è la possibilità di ricostruire in modo pulito l’accaduto. Chiara quella mattina era da sola. I genitori e il fratello erano partiti per una vacanza in Trentino. Aveva 26 anni, lavorava come impiegata. È stata colpita più volte con un oggetto metallico e pesante, poi il suo corpo è stato lasciato – o forse gettato – in fondo alle scale della cantinetta. A trovarla è stato proprio Alberto, che ha chiamato il 118 e si è precipitato dai carabinieri. Ma secondo la giustizia, non era uno spettatore: era lui l’autore. Eppure, dopo quasi due decenni, il caso continua a far parlare. A dividere. A sospettare. Tra gesti impulsivi e mani ripulite, la verità non è mai stata così sporca.
