L’argomentazione più debole a favore della “nuova scuola democratica” è quella secondo cui i voti sarebbero inutili. Questo è il motivo per cui Gianmaria, studente del liceo Enrico Fermi di Padova, ha scelto di non dare l’esame orale, avendo già il punteggio per arrivare alla sufficienza e uscire con 65 alla maturità del 2025. “Trovo che l’attuale meccanismo di valutazione non rispecchia la reale capacità degli studenti, figuriamoci la maturità”. Al di là dei girotondi terminologici intorno al termine “maturità” (è evidente che il nome non esprima un senso ampio di maturità; non è certo la krypteia spartana), a inquietare è l’idea che la matematica sia stata sufficiente a farlo passare. Il sistema che critica gli ha garantito la libertà di permettersi questa provocazione. E indubbiamente, dunque, Gianmaria ha sfruttato il sistema meglio di chi ha accettato il risultato di una semplice somma, sufficiente per licenziare lo studente a ridosso dell’estate. Ma davvero il sistema di voti è una tabella di numeri che va applicata con passività ragionieristica? O quei voti sono qualcosa in più che c’entra solo relativamente con la valutazione in sé. Per capirlo parlerei del latino.

Anche il latino è inutile. È faticoso, fa passare tante notti svegli, in ansia. Stressati. Anche il latino è un’imposizione didattica, al pari del voto. Perché non eliminarlo? Di certo non perché dovrebbe fornire gli strumenti del ragionamento o della logica. Perché è pur sempre cultura? Di certo però non è la porzione di cultura più importante da impartire a un ragazzo, che uscirà invece dal liceo senza sapere cosa sia lo spread o quale sia il funzionamento del sistema elettorale italiano. A che serve il latino, allora? A creare una comunità. Di lettori, per esempio intorno a una poesia di Catullo o a una versione di Cesare. Ma più in generale di cittadini. Una comunità informata della propria storia linguistica, culturale, in un certo senso cognitiva. Informata riguardo a un modo di pensare che fa parte del nostro dna. Un modo di pensare che, tuttavia, non è più completamente il nostro. Ci dà il senso dello scarto, in una comunità democratica, tra la tradizione e la contemporaneità. Esiste una distanza che la cultura, lo studio, la lettura, permettono di colmare. E in questo percorso di alfabetizzazione civile ed esistenziale, l’approfondimento del latino diventa un modo per essere tutti alla pari, eguali nelle opportunità.
I voti dovrebbero avere lo stesso valore. Eguaglianza di opportunità, un linguaggio comune che, seppur ostico da digerire, ci permette di confrontarci all’interno del contesto scolastico sui temi centrali di quel mondo che divora otto anni della nostra vita razionale. I voti non sono un buono strumento di valutazione? Quale sarebbe l’alternativa, un libero fiorire di tutte le inclinazioni adolescenziali, l’anarchia dei pruriti giovanilistici fatta passare per maieutica? E se attraverso i voti, come accade con il latino, potessimo fare esperienza dello scarto tra individuo, con la sua specificità, il suo desiderio di restare unico, non omologabile, e comunità? E se la vita dell’individuo nella comunità scolastica dipendesse proprio da un particolare tipo di libertà, quella di esprimersi ceteris paribus, cioè mantenendo uguali le condizioni di contorno, dai sistemi di valutazione alle norme di comportamento? Se questi vincoli, che ai ragazzi sembrano costrizioni inutili, fossero invece la cosa più utile di tutte?
