Ancora poche settimane e Roma, trattenendo laicamente il fiato pensando a ogni limite di agibilità, stringendo i denti fra molti scongiuri paganamente apotropaici, avrà il suo tragicamente atteso Giubileo; l'Anno Santo e le sue spine. Non è accertato se, come nella scena d’apertura de “La dolce vita” di Federico Fellini, un elicottero, salutato dalle ragazze in bikini che prendono il sole della moda in terrazza, sorvolerà gli attici dell’Eur o, in subordine, di Val Cannuta o magari di Tor Sapienza, così verso l'acme celeste di piazza San Pietro e del Circo Massimo, trainando una statua del Cristo ciclope redentore d’ogni umano peccato capitolino e per estensione globale, planetario. Di certo però l’economia cittadina per riempire l'erario della ricorrenza farà soprattutto affidamento sulla vendita al dettaglio del “Calendario dei preti belli”, che, onnipresenti, figurano incellofanati in esposizione tra edicole di giornali, botteghe di bangladini e, va da sé, negozi di articoli religiosi da almeno un decennio tra i rosari di opale fluorescente. I piacenti sacerdoti si lasciano addirittura ammirare immobili in effigie dal 1997, quando sul Trono di Pietro sedeva ancora il papa polacco sostenitore del regressivo culto mariano giustamente disapprovato dalle comunità cristiane di base. In realtà sembra che il prete di gennaio, che fa da immagine invitante di copertina, non sia mai stato né prete né residente temporanei nell’Urbe dei suoi seminari, ancora meno iscritto all’anagrafe romana di via Luigi Petroselli, così dedicata a un compianto sindaco comunista. Un’inchiesta giornalistica ne rivela infatti la vera identità, si tratterebbe di tale Galizia Giovanni, che candidamente, interpellato, ha avuto modo di confessare: “Mai stato sacerdote!” Un’accurata inchiesta di Fanpage riporta infatti, testualmente, che “da 18 anni, il suo volto pulito con collarino e abito talare, fa capolino dalle pagine del noto calendario dedicato ai turisti. La foto, realizzata da Piero Pazzi, circola insistentemente anche sui social, alimentando le più disparate leggende metropolitane: c'è chi è pronto a giurare che sia un prete ribelle che si è allontanato dalla chiesa perché non ne condivide più i principi e chi assicura che, invece, abbia lasciato il sacerdozio solo per amore”. Il Galizia, detto per puntualità, risulta infatti originario del capoluogo siciliano, e lo scatto che lo restituisce in abito talare risale al 2004, quando era appena diciassettenne. Il commento in rete più prossimo alla concupiscenza gay, senza raggiungere le vette di Immanuel Cast, con il suo brano porn groove "Com'è bella la cappella" recita: "Per il chierichietto che non deve chiedere mai".
Con questa premessa, non suoni inquietante l’allarme lanciato di recente contestualmente all’evento dall’autorità religiosa cattolica, il Gris, Gruppo di Ricerca e Informazione Socio-religiosa debitamente approvato fin nei suoi statuti dalla Chiesa italiana: “Attenzione ai finti preti’. Gli stessi che dovremo fin d’ora immaginare presenti tra via della Conciliazione e il Colonnato. Il Daspo a un fasullo vescovo che nella capitale si autoproclamava patriarca e arcivescovo primate dispensando informazioni sul Giubileo e le indulgenze è stato il primo segnale d’allarme: “Da tempo assistiamo oramai a un aumento di individui che – pur indossando abiti e insegne tipiche dei ministri della Chiesa Cattolica – in realtà con essa non hanno nulla a che fare. Nella maggior parte dei casi si tratta perlopiù di individui che riescono a far presa sui fedeli camuffandosi grazie a celebrazioni e liturgie molto simili a quelle cattoliche. Soprattutto in vista del Giubileo, proprio per una maggiore sicurezza dei pellegrini che qui verranno, occorre vigilare per evitare confusione con realtà religiose che non solo non sono riconosciute o in comunione con la chiesa Cattolica ma spesso ne sono antagoniste”. Non basterà il “celebret” (dal latino celebret, "che celebri") documento plastificato (in tutto simile a un codice fiscale, tessera BancoPosta, badge d’accesso alla piscina o in palestra o ogni altra carta di credito, in questo caso spirituale) che autorizzi, da parte della Chiesa cattolica a dire messa e amministrare i sacramenti anche fuori dalla propria diocesi, a evitare che il manigoldo impuro travisato perfino da viceparroco, se non da ordinario presbitero, monsignore vescovo ausiliario o perfino da cardinale arcivescovo si spacci per attendibile attore garantito di azioni liturgiche, celebrante lecitamente l’Eucarestia, ascoltare le Confessioni; il vero tesserino clericale reca in calce la firma dell'ordinario con timbro della diocesi di appartenenza. Il mondo della falsificazione ha riprodotto, storia nota, documenti molto più complessi e filigranati. Non si obblighi l’autore di queste righe a narrare di un proprio parente, addirittura consanguineo, falso chirurgo che, dopo essersi impossessato del tesserino di riconoscimento di un quasi omonimo ha lungamente indossato il camice frequentando le sale operatorie, nonostante la licenza di terza media presa a stenti, e un palmarès professionale da rappresentante di articoli da bagno; probabilmente neppure un microchip sottopelle, come avviene d’obbligo per gli animali domestici, salverebbe l’ingenuo, l’incauto, il bisognoso di cure spirituali, se non di benedizioni fra le panche delle basiliche, dagli impostori in tonaca. Si consideri ancora, che, tolta la sede principale di San Pietro, Roma conta ancora, in regime di pentachia, molti altri siti monumentali per i fedeli: San Giovanni in Laterano, San Paolo fuori le Mura, Santa Maria Maggiore, San Lorenzo fuori le mura; escludendo le normali parrocchie, comprese quelle a ridosso della Città del Vaticano o in altri quartieri non meno a rischio impostura. Sarà il caso, per completezza, di citarne almeno alcune: vedi la parrocchia di Cristo Re, non lontana dal bar “Vanni”, d'abitudine frequentato perfino dai postulanti Rai aspiranti partecipanti a "Tale e quale show", progettata dall’architetto Marcello Piacentini, maestro d’architrave prediletto dal duce, mostra fra i fedeli iscritti: notai, avvocati, farmacisti, provetti vincitori di concorso ippico, già ufficiali di Stato Maggiore, commendatori dell'Ordine al Merito, Cavalieri del Lavoro, membri di consiglio d’amministrazione, appunto, Rai, discendenti di leggendari trasvolatori del Polo. Realizzata fra il 1924 e il 1934, più che a un luogo di culto cristiano, assomiglia a una casamatta di Giarabub. E ancora Gregorio VII al Gelsomino, esempio di edilizia religiosa post-conciliare, dunque fine anni sessanta, che nonostante i suoi meriti estetico-architettonici, offre al passante o all’automobilista in attesa al semaforo un interrogativo di costume amministrativo, notazioni di concessioni edilizie e di custodia del paesaggio: per chissà quale bisogno ingordo di fede, pratica religiosa, prime comunioni e cresime, precetti pasquali, ma soprattutto quanta scarsa voglia di fare due passi fino alla dirimpettaia San Pietro, sia stato possibile concepirne l’edificazione? Nulla esclude che perfino queste realtà di culto periferiche possano essere ugualmente attenzionate dai preti fasulli. Probabilmente, neppure se in cima ai crocifissi, in luogo dell’iscrizione Inri, fosse apposto l'ignobile cartello “La ditta non ha succursali” sarebbe possibile scansare il danno sacrilego. E non abbiamo affrontato l’eventualità di "sportelli d'ascolto" scismatici che in nome di una riconquistata purezza cristiana offrirebbero un pacchetto liturgico non meno invitante; un po’ come i casinò minori lungo la strada per Las Vegas, gli stessi che appaiono nel nulla subito dopo la Diga di Hoover, le cui insegna luminose si offrono al viaggiatore con queste parole: “Il vero giocatore è qui che viene a scommettere”.