Dopo il lockdown e la pandemia di Covid, il tema della salute mentale ha preso sempre più spazio nel dibattito pubblico: in televisione, in parlamento e nelle scuole. La strada, però, è ancora lunga. A contribuire alla discussione c’è, da molti anni, il dottor Rosario Sorrentino, medico specializzato in neurologia, ma anche scrittore e divulgatore scientifico: nel 2008 ha pubblicato Panico. Una “bugia” del cervello che può rovinarci la vita (Mondadori), il suo primo libro dedicato agli attacchi di panico. L’elemento quasi paradossale è che la soluzione a certi disturbi esiste ed è a portata di mano: terapie farmacologiche e percorsi strutturati, che comprendono lo studio di una routine, di abitudini di vita che possono limitare le conseguenze del disagio mentale. Cos’è, dunque, che rallenta la lotta a simili condizioni? “Quella della paura e della vergogna è forse l'ostacolo più grande. I farmaci sono molto utili, se non indispensabili e farne a meno è assurdo”, ci dice Sorrentino. Una vecchia considerazione della mente e del disagio sono i principali nemici del progresso. Sono da lodare, quindi, coloro che, come Fedez o Fabio Fazio, portano in televisione le loro esperienze. Inserire nel palinsesto di trasmissioni importanti e molto seguite è sicuramente un contributo necessario a decostruire la cultura dello stigma, della negazione del disagio. Nessuno deve nascondersi rispetto al proprio disagio, ci dice Sorrentino. Stesso discorso vale per la depressione: “C'è ancora un lavoro culturale che va fatto per sensibilizzare la società su quello che è la depressione, una malattia che altera la biologia del cervello”. Niente a che vedere con il senso di colpa che si vuole suscitare in chi manifesta un disagio del genere: quelle mentali sono malattie, con sintomi, cause biologiche e ricadute sociali come tutte le altre. Da poco il dottor Sorrentino ha scritto un altro libro, stavolta a quattro mani con sua figlia, in cui affronta la tematica dell’attacco di panico. Si intitola Panico 2.0. Un disturbo che si può vincere (Compagnia editoriale Aliberti) e, oltre a essere un prezioso strumento divulgativo, consiste in una proposta concreta: si tratta di promuovere, attraverso i Ministeri dell’Istruzione e della Sanità in primis, la presenza di esperti in materia nelle scuole. “Prima si comincia meglio è”, sottolinea Sorrentino, che esorta un’azione addirittura precedente all’inizio del liceo. I temi sono molti, le soluzioni ancora in via di sviluppo. Come sempre accade, però, al progresso in medicina deve accompagnarsi un’evoluzione culturale. E questa è sempre la cosa più difficile.
Dottor Rosario Sorrentino lei avrà seguito la trasmissione di Fabio Fazio, cosa ne pensa di quello che ha detto Fedez?
È lodevole Fedez che, con la sua esperienza di vita, con quello che ha vissuto, abbia aperto il faro sul disagio mentale. Stando infatti a quello che ci dice l'Organizzazione Mondiale della Sanità (Oms) nel 2030 il disagio mentale sarà in cima ai disturbi più diffusi sul pianeta, in tutte le varie forme, dai disturbi dell'umore, ai disturbi d’ansia, ai disturbi di personalità. Per questo è da lodare Fedez, perché gli influencer possono fare molto per cambiare la percezione, la cultura e ridurre anche lo stigma, quella etichetta che porta molte persone a negare il proprio disagio, fino addirittura a doverlo nascondere.
Nel suo osservatorio da medico, qual è il disturbo che vede prevalentemente?
Sto vedendo un forte incremento del disagio mentale soprattutto tra i giovani, e in modo particolare tra gli adolescenti. Dopo il Covid c'è stato un sensibile incremento clinico da parte dei giovani, soprattutto per quanto riguarda gli attacchi di panico, la depressione e più in generale i disturbi dell’umore.
E perché proprio i giovani sono stati colpiti dopo il Covid?
Il lockdown ha fatto da incubatrice e ha in qualche modo contribuito a slatentizzare (ovvero far emergere) forme di disagio mentale, perché la rottura dei legami sociali, dei legami affettivi e delle relazioni ha fatto emergere una vulnerabilità e una fragilità che era allo stato latente. Questo perché l’isolamento forzato ha portato loro ad assumere abitudini diverse in una sorta di coercizione che ha contribuito a creare le premesse per una astinenza diffusa sia di tipo affettivo, relazionale che nei rapporti interpersonali.
Quanto spesso si abusa della parola “depresso” e quanto invece è importante definire la depressione come malattia vera e propria?
Quella della flessione del proprio umore è un'esperienza molto comune durante la vita e spesso non si riesce a individuare una causa specifica. Diversa è la depressione che è, invece, una malattia seria, molto complessa e che fa parte dei più importanti quadri clinici di disagio mentale. Questa malattia può arrivare a travolgere seriamente l'esistenza di chi la subisce, perché in questa condizione tutto viene messo drasticamente in discussione: le ragioni del proprio stare al mondo, il passato, il presente e la capacità di proiettarsi nel futuro. Emergono sentimenti autodistruttivi che compromettono le relazioni affettive, lavorative e le interazioni sociali.
Come si sente il depresso? Cosa le riferisce il paziente?
Si sente inutile, avverte su di sé un senso di inferiorità rispetto agli altri, non si sente più competitivo ed è candidato a soccombere al giudizio delle altre persone che lo trafiggono, perché, a loro dire, è uno che non vuole o non sa reagire. Nel depresso si assiste a un vero e proprio crollo delle prestazioni. Vengono meno la forza e la fantasia di programmare la propria giornata, perché si è spento quel motore che chiamiamo motivazione, che scandisce il ritmo delle priorità e delle ambizioni. Diventa improvvisamente faticoso lavarsi, vestirsi, parlare alle persone e rispettare gli impegni, perché è lo stesso corpo a non rispondere più con la prontezza e il vigore consueti.
Perché c'è questa grande paura nel prendere i farmaci?
Quella della paura e della vergogna è una vecchia storia ed è forse l'ostacolo più grande quando si soffre di disagio mentale. I farmaci sono molto utili, se non indispensabili e farne a meno è assurdo. Spesso vedo pazienti che arrivano a chiedere aiuto con estremo ritardo, quando il loro disturbo ha già prodotto significativi effetti negativi nella loro vita. C'è ancora molta resistenza e un lavoro culturale che va fatto per sensibilizzare la società su quello che è la depressione, una malattia che altera, modifica la biologia del cervello. Bisogna poi considerare che un depresso non curato ha un impatto non indifferente sulla nostra società, sulla sua famiglia, sul mondo del lavoro e soprattutto su sé stesso. Quello che è sconcertante è che, mentre per tante malattie c'è la diagnosi ma non la cura, se non sintomatica, qui il rimedio c'è ed è a portata di mano. Questo per far comprendere che le difficoltà maggiori non nascono tanto nel trovare il farmaco giusto, che può cambiare da paziente a paziente, ma nel far capire che la depressione non è una malattia di serie B, perché coinvolge l'intera sfera mentale e fisica di chi la subisce.
Lei nel suo libro Panico 2.0 ha fatto una sorta di proposta al Ministero dell'Istruzione…
Sì, perché dovremmo fermarci, noi adulti, a riflettere su quando gli adolescenti eravamo noi. Immagino infatti, promossi dal Ministero dell'Istruzione, della Cultura, della Sanità e degli Interni, la presenza nelle scuole di genitori, studenti, docenti ed esperti in materia, per affrontare, con uno spirito formativo, gli argomenti più seri. Deve essere un'iniziativa, a mio avviso, calendarizzata, cioè da ripetere più volte, che metta al centro l'importanza che ha la scuola nella vita dei giovani. La cosa che ritengo più importante, però, è partire non tanto dai licei, ma da prima ancora, perché nelle fasce d'età più basse c'è ancora quella capacità di ascolto, magari non la stessa di un'adolescente, ma viene meno quella voglia di ribellione tanto accesa in chi si appresta alla maturità.
Sta quindi dicendo di partire dalla preadolescenza?
Penso, ma potrei sbagliarmi, che già a quell'età, nella preadolescenza, si possano porre le basi per poi andare a lavorarci una seconda volta quando si è cresciuti. Prima si comincia e meglio è. Sarà una sfida lunghissima, perché al confronto ci saranno due cervelli che approcciano diversamente alla problematicità, alla vita e al modo di trovare le soluzioni, che sfruttano un “linguaggio” differente. Il nostro, basato sul senso di discernimento e sulla razionalità, il loro più pronto a rispondere all'emozione del momento e a contrastare il loro senso di vuoto e fragilità.
Anche il conduttore Fabio Fazio ha mostrato coraggio nel dare spazio a un tema del genere. Pensa che la televisione sia pronta a dare spazio al disagio mentale?
Vedo che si dedica ancora poco spazio a questi temi, ma ben vengano, tanto per cominciare, iniziative per sensibilizzare l’opinione pubblica e ridurre quei pregiudizi e quei luoghi comuni che sono forse più dannosi della malattia stessa. Chi fa comunicazione e lo fa rivolgendosi a un grande pubblico ha, a mio avviso, il dovere, all’interno di una linea editoriale, di programmare spazi riservati alla sofferenza umana e quella mentale lo è più di qualunque altra. Per quanto riguarda Fazio ritengo che, per lo spessore delle persone che invita nel suo format, possa essere, come lo è già stato in altri casi, un innovatore, sempre attento a cogliere comportamenti, fenomeni emergenti sempre più presenti nella nostra società e in un mondo in continua evoluzione.