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Il Pd è come il semaforo:
mentre gli altri si agitano,
lui immobile regola il traffico

  • di Lorenzo Longhi Lorenzo Longhi

2 febbraio 2022

Il Pd è come il semaforo: mentre gli altri si agitano, lui immobile regola il traffico
Apparentemente statico, lucina rossa, lucina verde, benzina sul rogo della Casellati, reincarico a Sergio Mattarella, la soluzione preferita per il Pd. Un’arte della sopravvivenza e della mediazione assai politica: nessun nome, nessuna prova di forza, nessuno strappo e, alla fine, il risultato in tasca in attesa di capire cosa sia, cosa voglia e che futuro immagini per l’Italia un partito che, nonostante sé stesso, rimane ancora il riferimento di un’area non irrilevante di elettori

di Lorenzo Longhi Lorenzo Longhi

L’imitazione ha venticinque anni, ormai dimenticata. Pippo Chennedy Show, Corrado Guzzanti prende le fattezze di Romano Prodi, allora Presidente del Consiglio, l’ironia è una perla: “Le devo confessare che già da ragazzo, quando cominciavo a fare politica, un simbolo più di altri mi aveva colpito e ispirato: il semaforo. Sotto il semaforo tutte le macchine corrono, han fretta, devono andare, devono scappare, fan le corna al finestrino, si agitano, si muovono. E lui fermo, tranquillo, governa in mezzo la strada, la situazione è sotto controllo. Nessuno lo muove, immobile: semaforo”. A distanza di cinque lustri, quel monologo potrebbe descrivere il ruolo di Enrico Letta nelle recenti elezioni per il Quirinale. Apparentemente immobile, lucina rossa, lucina verde, benzina sul rogo della Casellati, reincarico a Sergio Mattarella: la soluzione preferita, l’unica possibile per il Pd.

Il Pd, a questo giro, aveva solo da perderci. Imbarazzato dall’alleanza governista con 5 Stelle e Lega, incapace per questione di numeri di imporsi o di fare la voce grossa, dannato dalla memoria dei 101 franchi tiratori che impallinarono proprio Prodi nel 2013, Il Pd ha dovuto fare i conti sia con quel precedente che con la consapevolezza di essere composto di anime diverse e potenzialmente pronte al tradimento nel segreto del catafalco. Letta ne è il segretario odierno, il quarto della legislatura iniziata nel marzo 2018 con le dimissioni di un Matteo Renzi il quale, comunque, era stato il dominus delle liste che avevano portato a quella tornata elettorale. Ciò significa che, al netto della scissione con la quale l’ex premier creò Italia Viva portandovi i suoi pretoriani, la compagine parlamentare del Pd è tuttora formata sostanzialmente da (ex) renziani o comunque da deputati e senatori scelti da lui. Impossibile, per questo, aspettarsi dal gruppo la fedeltà totale anche solo a un nome di bandiera.

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Il presidente della Repubblica rieletto, Sergio Mattarella

Letta tutto ciò l’ha capito e, in acque agitate da altri, ha navigato per restare a galla, ha giocato per non perdere, è rimasto fermo per portare a casa la pelle. La tanatosi è una strategia del Pd già dai tempi della segreteria Zingaretti e, a giudicare dai numeri dei sondaggi, pare funzionare, con una ripresa lenta ma costante, la moderazione centrista che ha esaurito da un pezzo qualsiasi spinta da sinistra, dove i rivoluzionari d’un tempo ora vedono come un auspicio e non più come una minaccia la prospettiva di morire democristiani.

Intanto il dato politico è significativo: senza colpo ferire, il Pd è ancora al governo in una fase fondamentale per il Paese, può intestarsi una parte della rielezione di Mattarella, non ha prestato il fianco a figuracce strategiche e comunicative. Un’arte della sopravvivenza e della mediazione assai politica: nessun nome, nessuna prova di forza, nessuno strappo e, alla fine, il risultato in tasca, in attesa di capire cosa sia, cosa voglia e che futuro immagini per l’Italia un partito che, nonostante sé stesso, rimane ancora il riferimento di un’area non irrilevante di elettori.

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