“Sai, mia madre, venezuelana, è passata da Caracas, dove viveva – e parliamo di una metropoli, all’epoca, all’avanguardia – a un paesino culturalmente chiuso di tremila anime in provincia di Benevento. Questo, poi, accadeva in un periodo storico in cui le persone dalla pelle scura, in Italia, erano poche. Quei pochi faticavano a integrarsi, erano davvero considerati dei diversi”. Ricardo Baez, dj e producer 37enne, prova un enorme sentimento di ammirazione per la madre. Per entrambi i genitori, in realtà. “Ascoltavo i dischi di jazz, blues e rock di mio padre. Dischi che lui conservava gelosamente nel suo studio, ai quali mia madre contrapponeva i nastri pop che ascoltavamo in auto mentre mi accompagnava a scuola. Madonna e la disco music, per dire”. E così, oggi, Ricardo si ritrova, orgogliosamente, nel mezzo di un viaggio iniziato anni addietro, forse ancor prima di nascere.
Alle spalle hai una storia famigliare avventurosa.
Mio padre, italiano, emigrò in Venezuela quando aveva solo due anni. Lì, successivamente, avrebbe conosciuto mia madre, che insegnava danza moderna. Lui era un jazzista. Sono nato in mezzo alla musica, insomma. Se invece devo essere più preciso e meno romantico, ti posso dire che, in realtà, sono nato in un paesello chiamato Morcone (Benevento).
Ora dove vivi?
A Firenze. Dove mi sono trasferito quando avevo undici anni.
E dove sei diventato ciò che oggi sei.
Sì, un dj. Un producer. Sono circa dodici anni che mi posso definire tale. La mia passione per i dischi, però, nasce prima, quando avevo quattordici anni e nella mia cameretta “giocavo” con il giradischi.
Quindi la prima volta che hai esordito in console, hai usato i vinili?
No, quando ho iniziato, nei baretti di Firenze, utilizzavo i cd. Poi un bel giorno, dopo un po’ di tempo che il mio nome girava, il gestore di una discoteca, il Babylon, mi ha offerto la notte del giovedì. La serata divenne da subito quella dei “Tropical animals”. Ai tempi avevo una ragazza di Roma e quindi facevo la staffetta fra Firenze e Roma. Una volta, vicino al Pantheon, seduto al Caffè Sant’Eustachio, alzai gli occhi al cielo e notai, sul pinnacolo della chiesa, la testa di un cervo con una croce sopra. Informandomi, scoprii che Sant’Eustachio era un nobile romano che durante una battuta di caccia vide un cervo, ma non riuscì a sparargli. Gli apparve Gesù, che gli disse: “Da oggi in poi tu sarai il protettore degli animali”. Decisi di fare mia quella strana immagine e la sfruttai per creare il logo della serata “Tropical animals”. “Tropical” perché comunque sono di origini sudamericane, “animals” per il discorso legato a Sant’Eustachio.
Che serata è “Tropical animals”?
Un party che dura ormai da quindici anni. Probabilmente la serata più longeva d’Europa. Una notte di grande libertà. Una notte LGBTQ in cui tante persone di diverse origini, identità e gusti sessuali vanno a ritrovarsi celebrandosi (e liberandosi) attraverso la musica. Una serata che si avvale di alcuni dj resident e di altri dj, di livello internazionale, che vengono da noi in qualità di ospiti.
Tipo?
Al volo ti dico Donato Dozzy e Ellen Allien. Ma ce ne sono tanti. Faccio un po’ di ricerca, ai miei “animali tropicali” voglio offrire qualche nome importante che non scorderanno facilmente.
Vi ritrovate ancora al Babylon?
No, dopo cinque anni di Babylon ci siamo trasferiti al Club 21. Nel frattempo ho portato la serata anche fuori da Firenze e dall’Italia. Siamo andati a Tel Aviv, Londra, Berlino. Tutto questo è “Tropical animals”, ma negli ultimi tempi sto cercando di staccarmi dalla tetta materna. Vorrei camminare da solo.
In che senso?
Nel senso che è ora di fare il salto di qualità come producer. Negli ultimi sei mesi sono uscito con etichette come Permanent Vacation (Monaco di Baviera), Mule Musiq (Tokyo) e Bordello a Parigi (Amsterdam). E se le serate Tropical offrono house e techno, io, come producer, inseguo qualcosa di ancora più sfumato e ricercato. Non mi piace etichettare la musica che faccio, ma parliamo ancora di house. O di una Italo più dark.
Quando mi hai detto di volerti allontanare un po’ dall'attività di promoter, per qualche strana ragione mi è comparso in testa un recentissimo reel di Instagram in cui Valentino Rossi è ai piatti e mette dischi. Lo inviteresti mai come guest a una vostra festa?
No. Non ho assolutamente nulla contro Valentino, ci mancherebbe, ma su queste cose sono molto ortodosso e rigoroso. Ognuno faccia il suo. Il djing è un’arte a cui servono ancora forme di riconoscimento. Il clubbing, in Italia, dovrebbe essere inquadrato meglio. È un settore pieno di professionisti che non salveranno vite umane, ma si prendono comunque cura della fetta di vita a cui la gente più tiene: il tempo libero. È una cosa seria.
Però ti piacciono i motori?
Le auto, più che le moto. E poi ho un feticcio per i cinquantini. Tipo il mio Booster nero, con cui ancora vado in giro. Di booster, in passato, ne ho avuti diversi.
Torniamo al clubbing. Alcuni dj della vecchia scuola lamentano che negli ultimi dieci anni (circa) ha spopolato la figura del “dj da Instagram”. Ossia: migliaia di follower, qualche bella immagine nel profilo social, ma poi la sostanza non la trovi. Dove sono i dischi, le serate, i successi veri? Riconosci l’esistenza di una simile bolla?
È un argomento delicato. I social possono fare tante cose diverse: creare, distruggere, mascherare. Ma credo che l’unico giudice vero sia il tempo. È il tempo che rivela e consolida la qualità. Ciò che mi spiace è che le nuove generazioni dipendono dai follower, per cui non capisci più se un dj sia prima di tutto un dj o un influencer. Promuovere sé stessi oggi è obbligatorio perché il mestiere del dj è cambiato radicalmente, però io mi chiedo: vogliamo parlare di qualità, ogni tanto? I giovanissimi, mi spiace dirlo, non ci capiscono un ca**o. Capiscono solo il linguaggio dei numeri. I numeri dei follower. Dov’è il gusto? La voglia di ricercare/scovare qualcosa di unico? Stare fermi e farsi scegliere dalla tecnologia è comodo ma pericoloso.
La qualità. Eterna inafferrabile.
Però esiste e bisogna discuterne. Ti parlo come uomo di origini venezuelane che per tre lustri ha promosso una serata LGBTQ, quindi credo di essere al di sopra di ogni sospetto: oggi capita, talvolta, che essere donna ed essere bella; o essere un uomo gay ben inserito nella comunità sia più importante che sapere mettere i dischi. E così, avere migliaia di influencer conta senza dubbio di più che avere un buon gusto musicale. Io sono felice che il mondo del clubbing si sia aperto a categorie che prima avevano meno chance in console, però ripeto: siamo certi che al centro ci sia ancora la qualità? Temo di no. Per tornare alle moto, visto che mi chiedevi di Valentino Rossi… Il rivale di Valentino era uno che doveva provare a correre (molto) veloce o uno a cui conveniva vantare un goloso pacchetto di tifosi? Adesso per favore non fatemi passare da censore, spero sia chiaro il senso delle mie parole. Se oggi dovessi citarti qualche nome hot ti farei, tra gli altri, anche quello di Matisa, che è una ragazza romana bravissima. Ribadisco, non ho preclusioni di alcun tipo.
Qualcun altro da tenere d’occhio?
Whitesquare, di cui ho seguito i costanti progressi. E Volantis, un ragazzo milanese, grandissimo dj e producer.
Se invece andiamo indietro nel tempo, tra le tue influenze spunta fuori il nome di Daniele Baldelli.
Baldelli è una figura che ho sempre stimato tanto. Quando lo invitai a Firenze, trovammo subito la sintonia. Baldelli pensa al nostro mondo in un modo molto simile al mio. Insieme abbiamo fatto un party a Firenze per la mitica rivista Mixmag, poi lui ha pubblicato un EP con l’etichetta Tropical animals, ovviamente collegata alla serata. È andato subito sold-out, neanche a dirlo. Daniele è un pioniere che non è mai sceso a compromessi. Per lui, solo grande stima.