Chissà se la palese insofferenza di Silvio Berlusconi per una Giorgia Meloni padrona delle scene affonda inconsciamente in un ricordo rimosso risalente al 2010. Il 22 aprile di quell’anno, dopo aver fondato il Popolo della Libertà dalla confluenza di Forza Italia e Alleanza Nazionale, il Cavaliere, ai tempi “splendido splendente”, rampognò in pubblico Gianfranco Fini, resosi colpevole di dissenso verso la linea ufficiale. Fini, che era seduto in prima fila, proprio davanti a Berlusconi, reagì furioso con la frase rimasta negli annali: “Altrimenti che fai, mi cacci?”. Da qui bisogna ripartire, per capire come mai domenica prossima il redivivo Fini si farà intervistare da Lucia Annunziata a “Mezz’ora in più” su Rai Tre. Giusto pochi giorni dopo l’insediamento del primo Presidente del Consiglio dei Ministri appartenente non al centrodestra, ma alla destra tout court. Quella erede del Movimento Sociale Italiano, di Alleanza Nazionale e del loro ultimo leader: Fini, appunto.
Non è stato sottolineato a sufficienza, ma se la Meloni è lì dov’è ora, lo deve in buona parte a lui, il freddo e azzimato Fini. È una sua figlioccia, politicamente parlando. Non, intendiamoci, per gratitudine, sentimento nobile che in politica ha pochissimo corso, ma per concezione, convinzioni e brodo di coltura. Basta ripassare un po’ di date. Nel 1996, Fini pienamente in sella e benedicente, la futura premier neppure ventenne debutta come capo del movimento studentesco di Alleanza Nazionale, “Azione Studentesca”. L’anno prima c’era stata la “svolta di Fiuggi”, il ripudio del fascismo, e non risultano prese di distanza da parte della giovanissima Giorgia. Tanto che nel 2001 Fini la nomina reggente di Azione Giovani, la sigla che riunisce i gangli giovanili del partito, di cui diventerà presidente a tutti gli effetti nel 2004. Era insomma persona di sua fiducia, che nel frattempo aveva tagliato i ponti con “quelli di Colle Oppio”, gruppo vicino a Gianni Alemanno, contrapposto alla corrente di La Russa e Gasparri, “Destra Protagonista”. Insomma, magari non una finiana antemarcia, ma quanto bastava perché Fini la candidasse nel 2006 alla Camera, di cui assunse la vicepresidenza. E fu sempre Fini, che la portava in palmo di mano, a ritagliarle nel 2009 un posto da ministro della Gioventù, il più giovane della storia d’Italia, nel governo Berlusconi.
Che poi le qualità della donna, la prudenza, la capacità di manovra, il senso militare di organizzazione, la comunicatività un po’ romanesca - e anche e proprio per questo efficace - si siano manifestate indipendentemente dal rapporto di filiazione con il “padre”, ciò non toglie che la Meloni si stata e resti una creatura di Gianfranco Fini. Non al punto, naturalmente, da seguirlo nella disperata scissione che in quel fatidico 2010 lo condusse a partorire un partitino ininfluente e presto scomparso nella nebbia, dal nome insipido, “Futuro e Libertà” (sfracellatosi nel 2013 dopo essersi accasato con Mario Monti, sic). Il mentore era stato travolto dall’affaire della casa di Montecarlo, crocifisso dalla stampa berlusconiana poichè aveva inaccettabilmente sconfinato, da vero kamikaze, dal recinto di centrodestra: troppo, per lei. Ruppe così ogni rapporto, non senza strascichi polemici roventi (“è una ragazzina che si è montata la testa”, l’apostrofò lui nel 2016) e allorquando qualcuno, nel 2019, ebbe a scrivere che ci sarebbe stato fra loro un contatto in occasione delle elezioni europee di allora, la smentita non si fece attendere: “È una notizia totalmente inventata”, commentò arrabbiatissima, “e voglio chiarire ancora una volta che non potrà mai esserci nulla tra noi e Gianfranco Fini. Il nostro compito, come tutti ormai sono costretti a riconoscere, è stato ricostruire quello che proprio Fini con le sue scelte aveva distrutto e garantire così rappresentanza alla destra e al suo patrimonio di valori, uomini e idee. E ci siamo riusciti, FATEVENE UNA RAGIONE”.
Si dà il caso, però, che agli inizi di ottobre 2022 indiscrezioni giornalistiche abbiano riferito che oggi i due si parlano, si parlano eccome. Non solo: lo stesso Fini lo ha confermato a Repubblica, sia pur cercando di ridimensionare la cosa a “chiacchierata informale”. Ma ha colto la palla al balzo per rimarcare che donna Giorgia “non ha mai preso una posizione contraria, anzi ha votato a favore” di Fiuggi, e tanta era la stima in lei da averle affidato, come abbiamo ricordato, la vicepresidenza della Camera, a soli 32 anni. Più ancora delle tappe di una sfolgorante carriera, importa in questa sede evidenziare un particolare che Fini ha inteso mettere in risalto: già l’Msi era favorevole alla Nato. Perché questa nota? Perché di qui torniamo a Berlusconi. Con le sue dichiarazioni obbiettivamente pro-Putin, se e quanto strumentali è indifferente, l’ex dictator del centrodestra ha voluto subito mettersi di traverso alla leadership della Meloni. Per strapparle i nomi che desiderava nei ministeri per lui sensibili, certo (operazione fallita). Ma anche perché, è notorio e lo hanno in pratica detto tutti coloro che lo conoscono un po’, a Silvio la parte del comprimario sta stretta.
Ai tempi di Fini, era lui a dare le carte, grazie ai suoi voti, ai suoi media e ai suoi soldi. Ora è più umilmente il terzo della coalizione, non ha ottenuto nessun posto-chiave nell’esecutivo (eccezion fatta per Antonio Tajani agli Esteri, un Tajani tuttavia sempre meno fido, a quel che si dice), e pur di prendersi la scena, lui che indossava il cappello da cowboy con Bush e che è stato sempre un filo-americano per ideologia e antropologia, si mette a fare il putiniano fuori sincrono. Ecco, forse, perché Fini torna a manifestarsi: per celebrare i fasti della “sua” antica pupilla, ma anche per togliersi lo sfizio di una rivincita morale su chi l’aveva messo alla porta. Chiusa una porta, si è aperto un portone. Non per lui direttamente, per la Meloni nipotina di Almirante e vendicatrice trasversale di papà Fini.