Davide Sisto è un filosofo più unico che raro in Italia. L’anima è metal e non poteva che scegliere un settore che sbranasse i confini tra le varie discipline. Stiamo parlando della tanatologia, quell’insieme di studi che cercano di comprendere il fenomeno della morte dal punto di vista filosofico, sociologico e antropologico. In Italia i tanatologhi sono pochi, è un settore di frontiera, all’avanguardia, che raramente viene scelto e che, ci ricorda Davide Sisto, «non paga a livello accademico». Richiede tanto studio e un costante aggiornamento. Non a caso Sisto tiene anche un laboratorio sulle Intelligenze artificiali all’Università di Torino e ci sentiamo a ridosso di una trasferta all’Università di Trieste; «il viaggio della speranza». Gli abbiamo chiesto un po’ di tutto, dai suoi libri in cui ha indagato il posto della morte nei social network, alla morte della madre di Selvaggia Lucarelli e critiche annesse. Dallo striscione dei tifosi del Napoli contro Roberto Maroni a come è cambiata la nostra visione del lutto in tempi di pandemia. Ci ha anche parlato di un negozio a Torino che vende ologrammi (dovrebbe essere di un parente di Berlusconi). Infine ci consiglia la serie che tutti dovremmo vedere per imparare ad affrontare il dolore di una perdita. Intervista pop al bibliomane della morte, che bacchetta lo Stato per non aver fatto abbastanza in questi anni.
È stato creato un visore che uccide l’utente quando muore nel gioco con tre cariche esplosive. Sembra assurdo.
Si tratta di una provocazione che nasconde un concetto filosofico molto profondo, ovvero che tutto ciò che è virtuale oggi incide sul reale, determina un’integrazione totale. È indistinguibile dal reale, per gli effetti che produce. La stessa distinzione reale-virtuale è obsoleta. La provocazione del produttore rilancia una domanda specifica, sul valore dell’integrazione tra virtuale e reale.
Questo tentativo di integrare virtuale e reale non è rischioso?
Da una parte è una direzione estremamente utile in funzione per esempio dei tentativi di cura nei confronti di determinate patologie. Per esempio si fa molto ricerca su Alzheimer e varie malattie degenerative negli anziani. In quei casi, con soggetti che hanno già un distacco patologico dalla realtà quotidiana, anche solo parziale, la realtà virtuale aiuta a stimolare le attività cognitive e genera un senso di benessere psicofisico. Magari si permette di visitare luoghi agognati ma mai visitati. Tutto questo è molto positivo. Oppure si fanno esperimenti durante le cure di pazienti che devono affrontare delle terapie dolorosissime e per questo li si immerge in realtà virtuali che riescono ad attutire psicologicamente il dolore, come dei videogiochi nel caso dei bambini. Ancora, penso a un aspetto per ora fantascientifico di una serie televisiva che mi aveva molto colpito, Upload. In una puntata la protagonista si incontra con il padre in una realtà virtuale praticamente sulle rive dell’Hudson a New York, mentre in realtà lei era nel suo appartamento e il padre in ospedale. Ecco, se fosse possibile farlo, anche questo sarebbe interessante, perché le persone si incontrano all’interno di una logistica più affascinante di quella in cui si trovano fisicamente, e questo può facilitare la conversazione, metterli più a loro agio e via dicendo.
Ma?
Ma dall’altro lato i problemi nascono perché non tutti hanno già la capacità o la possibilità di comprendere appieno gli effetti che un'immersione in mondi virtuali produce nella realtà fisica. Chiunque abbia provato i visori, se si sta per un periodo lungo immersi, poi una volta tolti proverà una sorta di alienazione. È capitato anche a me. Questo è l’aspetto più problematico su cui occorre lavorare.
Dove si possono provare i visori qui in Italia?
Ovviamente, il mercato dei visori è accessibile a tutti i cittadini, pur dovendo affrontare costi spesso importanti. Io li ho provati durante un festival sulla realtà virtuale a Roma. È curioso che a Torino sia stato aperto, poco prima della pandemia, un negozio che vende gli ologrammi delle persone. Con tutti i dati che produciamo quotidianamente nella dimensione online è abbastanza facile creare questi nostri “gemelli digitali”, la cui funzionalità è messa in atto soprattutto in ambito sanitario.
Di cosa si tratta?
Quelli che vengono usati in ambito medico sono delle vere e proprie riproduzioni della persona o di alcuni suoi organi singoli. Gli ospedali più avanzati riescono magari ad avere un ologramma del cervello del paziente, sulla base dei dati che hanno elaborato, e simulano l’operazione sull’immagine prima di operare sul cervello reale della persona. Un tempo, mi raccontava un medico, si doveva mettere letteralmente le mani nella testa del paziente con un tumore al cervello. Ora si cerca di evitare di agire in modo tanto rischioso e i cosiddetti digital twin servono a trovare una terapia o una strategia di azione personalizzata che provochi il minor dolore possibile al corpo del soggetto reale. Così vale per gli interventi sul cuore o sui reni. Ma non c’è nulla di apocalittico a riguardo. Anzi. Le discipline umanistiche producono, troppo spesso, giudizi pessimistici sulle trasformazioni tecniche e tecnologiche dell'umano che sono più figlie del pregiudizio o della paura che l'effetto di una conoscenza specifica e approfondita.
Secondo te perché gli intellettuali, soprattutto quelli più popolari, sono così intimoriti dalla tecnologia?
Da una parte c’è una specie di repulsione, quasi di natura moralistica, all’idea che l’uomo possa emanciparsi dalla propria natura, come dire che l’uomo non può avere una sua forma di indipendenza da ciò che si ritiene naturalmente inamovibile, sacro e inviolabile. Questo aspetto è influenzato dalle religioni e da un'idea sacra di natura, idea che non ha riscontro nella vita degli esseri umani dagli albori dei tempi. Durante la scrittura del mio nuovo libro sui confini dell'umano per la collana "Faustiana" del Mulino, curata da Aldo Schiavone, mi sono imbattuto in una serie di affermazioni del passato che dimostrano come le paure nei confronti dell'inedito tendano a reiterarsi. Per esempio Goethe dice sul microscopio e il telescopio le stesse cose che vengono dette oggi sulla perdita dell'esperienza a causa delle tecnologie. C’è un eterno ritorno della paura nei confronti di ogni realtà che possa permetterci di superare il consolidato. L'atteggiamento conservatore pare più sicuro e meno azzardato rispetto ai voli pindarici dell'immaginazione e della creatività umane.
Ne La morte si fa social hai parlato di Facebook come di un futuro archivio digitale in cui le nostre identità digitali potranno continuare a esistere. Cosa vuol dire?
I social media sono nati per creare delle interazioni interpersonali a distanza. Il fatto che registriamo tutto ciò che avviene lì dentro fa sì che un grande patrimonio di informazioni e ricordi sopravviva alla nostra data di scadenza biologica. Se teniamo conto che già oggi si calcolano qualcosa come 50milioni di utenti deceduti su Facebook, e se teniamo conto che sulla base della crescita odierna di Facebook, se Facebook ci sarà ancora, nel 2100 potrebbero esseri dall’1 ai 5 miliardi di utenti deceduti, come rilevato da una ricerca a Oxford, ecco che da luogo nato per creare relazioni interpersonali si trasformerà in un luogo non più basato sul presente ma sul passato, sui ricordi. Qualcosa che metterà di fronte agli storici un quantitativo di materiale incredibile. C’è comunque il rischio che tutto questo materiale scompaia nel giro di pochi minuti, come successo con MySpace, nel caso in cui ci fosse un trasferimento di dati per esempio.
Esistono anche i testamenti digitali per lasciare il proprio account in gestione ai cari. Non è strano che qualcuno gestisca la mia identità per mio conto, producendo post e commenti a mio nome?
La giurisprudenza è ancora sfilacciata e nebulosa sull'eredità digitale. Generalmente vi è la possibilità di scegliere un contatto erede su Facebook, ma prevale il rischio che i propri profili social rimangano anarchici nel web e anche terzi possano utilizzare quei contenuti, per qualsiasi finalità. Occorre agire in fretta per tutelare gli effetti della sopravvivenza della vita digitale dopo la morte biologica. Soprattutto in relazione all'elaborazione del lutto. Una madre che ha perso un figlio un tempo aveva la stanza del figlio con i suoi oggetti all’interno e poteva scegliere come disporne. Oggi si trova il profilo del figlio pieno di fotografie, video e scritti, senza contare i contenuti della messaggistica privata. La regolamentazione di questo materiale e la sua gestione preventiva sono necessarie per attutire le conseguenze negative. Oggi è molto diffuso l'attaccamento patologico dei dolenti ai contenuti digitali del defunto. Servirebbe una specie di tanatologia digitale da applicare negli ambienti in cui ci si occupa di sostegno al lutto.
Quindi non ci aiuta a smaltire il dolore?
È molto soggettiva l’elaborazione del lutto. Per qualcuno sarà sicuramente di aiuto, però in linea generale siamo una società che ancora sta imparando a usare le tecnologie digitali e serviranno anche dei decenni per imparare a trattare con la presenza digitale dei morti.
Qual è il cuore del discorso in Porcospini digitali?
Il concetto dei porcospini nasce da una famosa metafora di Schopenhauer che in soldoni parla di questi animali che in una giornata molto fredda, per paura di congelare, decidono di stringersi l’uno con l’altro, ma le reciproche spine procuravano loro dolore e quindi si allontanavano, finché a forza di tentativi non hanno trovato una moderata distanza reciproca che gli permettesse di avere il calore reciproco senza farsi male. Schopenhauer sosteneva che gli esseri umani, al pari, dovessero trovare una distanza reciproca perché cercavano di unirsi ma erano abilissimi a farsi del male reciproco a causa dei propri difetti. Per me con il COVID si è presentata una nuova versione di questo discorso. Con il lockdown abbiamo conservato i nostri corpi fisici ma continuando a svolgere la nostra attività online. Il libro cerca di capire come sia cambiato il nostro rapporto con la vicinanza e la distanza in un periodo in cui non si è più vicini o distanti solo fisicamente.
La pandemia ha cambiato il nostro modo di concepire la morte?
No. Credo sia stata una grande occasione persa. Non c’è stato lavoro sul piano del nostro rapporto con la morte. Non si è neanche pensato di creare un lavoro dal punto di vista statale intorno al senso della morte nella nostra vita e ora ci troviamo con persone che hanno sviluppato ansie e depressioni, o altri problemi di natura patologica. Qualche addetto ai lavori ci ha provato, ma erano piccole iniziative completamente sommerse dal mare di luoghi comuni.
Selvaggia Lucarelli è stata attaccata per essere andata in prima serata nonostante la morte della madre. Tu che ne pensi?
Credo che sia assolutamente non giusto criticarla, perché non esiste una modalità standard di affrontare un lutto. Se hai un genitore gravemente malato e sai che prima o poi morirà, magari hai fatto già un percorso che ti porta con più lucidità e razionalità ad affrontare gli ultimi giorni. Oppure non è detto che una morte così dolorosa spinga la persona a chiudersi nel proprio privato, preferendo continuare a fare ciò che si è sempre fatto. Ci sono intere culture che ballano durante i funerali. In Irlanda, mi raccontava un docente, durante il funerale si beve e ci si ubriaca. Mi sembra molto indelicato giudicare il lutto altrui. Sicuramente ci sono anche persone insensibili, ma non possiamo stabilirlo noi che non le conosciamo.
Questo intervento del pubblico nel privato dei personaggi popolari?
I social media hanno sicuramente intensificato questa intromissione nella loro vita privata, anche perché danno alle persone comuni la convinzione di creare una sorta di rapporto personale con loro. Per questo poi si crede di poter interferire nella loro vita. Bisognerebbe avere una forma di distacco nei confronti dei sentimenti dell’altro, anche perché non è detto che si possa essere in grado di consigliare agli altri, soprattutto quando noi stessi potremmo essere capaci di fare molto peggio di coloro che critichiamo. Recentemente, Britney Spears ha messo su Instagram una foto in cui era completamente nuda e ha fatto delle affermazioni sessualmente esplicite, probabilmente perché instabile dal punto di vista psicologico, e ci sono state tantissime interazioni di odio e di derisione. Non so quanto questo possa farla stare meglio.
I media di professione dovrebbe tener conto dell’impatto che certi contenuti hanno sulla nostra visione di morte?
Susan Sontag ne aveva parlato ai tempi della fotografia riferendosi a una sorta di anestetizzazione del dolore a forza di vederlo raffigurato. La risposta è complessa. Qualche anno fa si era discusso molto del fatto che il cantante Mango era morto sul palco a causa di un infarto e le immagini erano state riprese con il telefono dai fan. Queste immagini sono presenti in quantità significative in relazione alla parola “Mango” su Youtube. È una cosa che pone tantissimi problemi: che effetto fa per i familiari sapere che la morte del loro caro è stata registrata ed è costantemente accessibile? Che effetto fa a chi non è abituato a vedere questi contenuti e se li trova davanti agli occhi con un semplice clic? E si tratta comunque di una morte non violenta, nel senso canonico in cui intendiamo le morti violente. Poi ci sono le morti in guerra o durante delle sparatorie, ma lì il discorso è davvero delicato. Spesso questi omicidi in diretta hanno luogo proprio per una forma di autoconsacrazione da parte dell'omicida. Nel rapporto tra la morte e la sua rappresentazione digitale entra in gioco il tema del tabù e della rimozione. Questo produce atteggiamenti pruriginosi che rendono la morte rappresentata qualcosa di diverso da ciò che è, con tutti gli effetti sociali e individuali che ne derivano. Sarebbe opportuno lavorare prima sul tabù per dare un senso ragionevole a questo tipo di rappresentazioni.
Dalla tragedia di Ischia, con Salvini che parla di 8 morti ma ancora non erano confermati, al terremoto, dall’Ucraina alle morti sul lavoro. Come parlano della morte i nostri politici?
Temo che la politica sia interessata unicamente a fare campagna elettorale, sapendo che il dolore e la sofferenza sono temi sensibili. Non mi pare che ci sia questa grande profondità ed empatia, lo dimostra la sciatteria a fondamento di tante tragedie assolutamente evitabili.
C’è retorica anche quando Enrico Letta si stringe al cordoglio per Roberto Maroni, sempre stato all’opposizione in modo anche duro?
Se il suo discorso è rivolto ai parenti che stanno soffrendo la perdita, può essere normale spendere buone parole. Non sono un fautore del discorso secondo cui non si può parlare male di un morto, ma certamente occorre tenere conto del dolore di chi soffre la perdita.
E lo striscione per Roberto Maroni dei tifosi del Napoli: «Maroni, volevi vederci morti ma noi abbiamo visto morire te. Mai tesserati»?
Da un certo punto di vista è più che legittimo non dimenticare cosa ha fatto in vita la persona appena deceduta. La morte è la sanzione di ogni narrare, diceva Walter Benjamin. Cala il sipario e si tirano le somme. Se un atteggiamento di circostanza, a tratti ipocrita, è comprensibile per rispetto nei confronti di chi soffre la perdita, è anche vero che non si può non tirare le somme su una biografia particolarmente controversa. Come quella di chi, per esempio, ha manifestato forme di razzismo. La Lega Nord non ha mai lesinato nell'uso di espressioni offensive ed escludenti.
Per finire ci consiglieresti una serie tv utile per comprendere come approcciarsi alla questione del lutto?
Sarò banale, ma Afterlife ha quella sorta di ironia e di sarcasmo che in fondo fa anche bene in una situazione di lacerante dolore come quella di un lutto. Tra l’altro ha avuto anche ottimi giudizi da parte di psicologi e specialisti, quindi direi che questa è la serie imprescindibile.