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Ilaria Alpi, 15 anni dalla morte del papà Giorgio e la sua lotta contro un muro di gomma per avere verità e giustizia

  • di Serena Marotta Serena Marotta

10 luglio 2025

Ilaria Alpi, 15 anni dalla morte del papà Giorgio e la sua lotta contro un muro di gomma per avere verità e giustizia
Più di 20 anni dopo la morte di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin, la verità sull'omicidio della giornalista e del suo operatore rimane irrisolta. Nonostante le inchieste e le testimonianze, le ipotesi su traffici d'armi e rifiuti tossici tra Italia e Somalia non sono mai state confermate. La battaglia di Giorgio e Luciana Alpi per giustizia si è conclusa in un drammatico fallimento

di Serena Marotta Serena Marotta

Giorgio Alpi è morto il 10 luglio del 2010 senza poter dare un nome e un volto agli assassini di sua figlia Ilaria Alpi, l’inviata del Tg3 in Somalia nel 1994. Ha lottato contro un muro di gomma per avere verità e giustizia, ha lottato contro una lunga malattia che l’ha portato via. Al suo fianco in questi lunghi anni, la moglie Luciana Alpi, morta anche lei a giugno del 2018. Insieme si sono sostituiti agli inquirenti per cercare la verità sulla morte della figlia e del suo operatore Miran Hrovatin avvenuta in quelle strade di Mogadiscio, dove si è spento il senso di giustizia, la stessa giustizia cercata da Ilaria e Miran che non potranno più raccontarlo. Oggi, nel giorno dell’anniversario della morte di Giorgio Alpi, facciamo un salto indietro e ripercorriamo i processi che ci sono stati dopo la morte della giornalista e del suo operatore, la commissione d’inchiesta e le informative dei servizi segreti. Il 12 gennaio 1998 Hashi Omar Hassan viene arrestato con l’accusa di concorso in duplice omicidio: sarebbe stato lui insieme ad altri ad assassinare la giornalista del Tg3 Ilaria Alpi e l’operatore Miran Hrovatin il 20 marzo 1994 in un agguato a Mogadiscio, in Somalia. Contro di lui ci sono le testimonianze di Ahmed Ali Rage, detto Gelle (è il principale teste d’accusa ma non testimonierà al processo: si renderà infatti irreperibile) e l’autista della Alpi, Ali Mohamed Abdi, che lo hanno indicato come uno dei componenti del commando. Ci sono state diverse richieste di archiviazione del caso Alpi-Hrovatin ma ad oggi “dopo l’ordinanza del 4 ottobre 2019, il fascicolo è tuttora nella fase delle indagini”, come spiega a Mowmag l’avvocato Giovanni Nicola d’Amati, legale della famiglia Alpi.  Prima di arrivare a questa fase però ci sono stati dei processi e una commissione d’inchiesta.

Giorgio Alpi e Walter Veltroni
Giorgio Alpi e Walter Veltroni foto Ansa

Il processo di primo grado vede imputato Hashi che il 15 gennaio 1998 viene interrogato: «il giorno in cui si è verificato l’episodio, io mi trovavo a trecento chilometri da Mogadiscio in una località che si chiama Adale. [...] Mio nonno che era malato assai grave si trovava in campagna e io ero andato a fargli visita [...] È vero che ho subito violenza da parte dei militari italiani [...] di questo episodio ne ho parlato con la Società degli intellettuali somali. Non mi dice nulla il nome Ahmed Ali Rage, a meno di non trattarsi di una persona chiamata Gelle”. L’interrogatorio continua e Hashi spiega che “[...] Gelle mi chiese se potevo riferire all’ambasciatore italiano in Somalia in merito ai maltrattamenti che avevo subito da parte dei militari italiani – ha aggiunto Hashi. Io acconsentii e assieme a Gelle mi recai dall’ambasciatore italiano... questo si è verificato nell’ottobre 1997. [...] Dopo l’incontro con l’ambasciatore, Gelle mi disse che l’ambasciatore voleva acquisire notizie sull’omicidio dei due giornalisti italiani, Gelle aggiunse che essendo io vittima dei soldati italiani se mi fossi auto-accusato l’ambasciatore italiano mi avrebbe dato un compenso, Gelle dal canto suo diceva di poter confermare la mia versione dei fatti... [...] io gli risposi che non mi interessava nulla del fatto aggiungendo che sarei andato in Italia per rendere le mie dichiarazioni e far valere i miei diritti [...]. ». Insomma, Hashi si dichiara innocente. Il 21 settembre 1998 si svolge l’udienza preliminare e il somalo viene rinviato a giudizio dal gip Alberto Macchia, che fissa la prima udienza per il 18 gennaio 1999. Hashi, 23 anni (al momento dell’arresto) è un Abgal (clan), conosciuto a Mogadiscio col soprannome di “Faudo” (provocatore, mafioso), uno dei ragazzi delle campagne, un tipo sbandato, al servizio dei signori della guerra. Arriva il giorno tanto atteso, il 18 gennaio 1999, quello in cui sarebbe dovuto iniziare il processo di primo grado contro Hashi Omar Hassan. In aula, Gianvittore Fabbri, che presiede la Corte, è pronto ad iniziare. Subito, però, c’è un intoppo: manca l’interprete e senza non si può procedere (l’imputato parla solo la lingua somala). Da qui il rinvio dell’udienza alle 9.30 del 2 febbraio, nell’aula bunker del carcere di Rebibbia. Prima del rinvio però viene stabilito il calendario delle udienze. Dodici minuti in tutto per prospettare quello che sarà un processo molto lungo: 257 testimoni da sentire, per un totale di 57 udienze, ovvero 4 udienze a settimana. Si stabilisce anche l’ordine delle testimonianze: prima i consulenti che negli anni hanno svolto gli accertamenti tecnici. Tra pareri discordanti, autopsia effettuata dopo due anni, stubs rimasti sigillati e reperti lasciati nelle stanze dei laboratori, l’ultima perizia stabilisce che ad uccidere Ilaria Alpi è stato un colpo sparato a bruciapelo. Tuttavia, non sarà l’ultima: la Corte - nel corso del processo - deciderà infatti di accettare la richiesta del pubblico ministero di disporre una nuova perizia. Poi saranno sentiti i giornalisti, i militari e tutte quelle persone che a vario titolo hanno avuto un ruolo nella vicenda. 

Si arriva così al 2 febbraio 1999, primo giorno del processo. Si procede con la lettura del capo di imputazione contro il somalo Hashi. La parola poi passa al pubblico ministero, Franco Ionta, per l’esposizione dei fatti e la richiesta di prove. L’emozione è forte il 4 marzo ’99 quando è il momento di sentire in aula i genitori di Ilaria: Giorgio e Luciana Alpi. La prima ad essere sentita è la madre di Ilaria. La signora Alpi riesce a vincere l’emozione e racconta le amarezze e le delusioni subite in questi anni nel tentativo di sapere la verità sulla morte della figlia. A cominciare dal giorno del suo funerale: «Il funzionario cimiteriale ci disse che Ilaria non poteva essere tumulata perché non era stato riconosciuto il suo corpo. Ci chiesero se volevamo andare a fare il riconoscimento, ma noi preferimmo non andare [...] ci avevano detto che il corpo era martoriato e allora io e mio marito abbiamo pensato che volevamo ricordarla come il giorno in cui è uscita da casa nostra. Andarono mio fratello e mio cognato a riconoscere il corpo. Quando tornarono, ci dissero che il corpo di Ilaria era integro e aveva solamente la testa fasciata». Da questo momento in poi i genitori della giornalista iniziano a diffidare e a sostituirsi agli inquirenti e hanno un’intuizione: l’agguato potrebbe essere stato registrato dal satellite usato dai militari statunitensi. «Chiedemmo al sottosegretario del ministero degli Esteri, Rino Serri, se quel giorno sui cieli di Mogadiscio ci fosse un satellite – ha raccontato la madre della giornalista -. Prima ci disse che non c’era, poi che c’era ma era un satellite che girava su un cielo nuvoloso e le immagini non erano chiare ». La signora Alpi prosegue e subito un’altra amarezza: «Il 20 luglio del ’98 il dottor Gianni Minà fece uno speciale su nostra figlia. Tre giorni dopo la trasmissione, mi telefona il cappellano (padre Giovanni Montano, ndr) della nave Garibaldi”. Da lui la signora Alpi apprende che dopo circa un’ora dall’agguato Ilaria era ancora viva: «gli chiesi se lui aveva dato una benedizione a Ilaria e lui mi disse: “No, signora. Io ho dato l’estrema unzione a sua figlia”. ». Estrema unzione che è un sacramento che si dà alle persone ancora in vita. Quindi dopo circa un’ora dall’agguato Ilaria era ancora viva. «[...] Tra il luogo dell’omicidio e il Porto vecchio c’erano circa 800 metri – precisa Giorgio Alpi commentando la lettera ricevuta dal generale Fiore – e gli facemmo notare che nessun militare era andato sul luogo dell’eccidio». Tra gli altri, nel corso del processo, viene sentita anche la dottoressa Antonietta Donadio Motta che fa delle rivelazioni fino a questo momento taciute. Per circa quattro anni, la dottoressa è stata dirigente della Digos di Udine e, per caso, si è trovata ad indagare sulla morte di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin. Peccato, però, che l’ex dirigente appellandosi all’articolo 203 del Codice di procedura penale oppone il rifiuto a rivelare l’identità delle fonti (per proteggerne la vita). Ciò comporta che le informazioni fornite sono inutilizzabili ai fini processuali. La dottoressa riferisce ciò che aveva appreso dalla fonte confidenziale: «la giornalista aveva individuato una pista, un traffico d’armi, e la stava approfondendo. Per questo motivo sarebbe stata eliminata”. Informazioni che ho trasmesso all’autorità giudiziaria di Udine, che le ha inoltrate alla Procura di Roma. Quindi fui delegata dal dottor De Gasperis (maggio 1994) a proseguire e attivarmi per acquisire ulteriori elementi». Così inizia lo scambio di informative tra Udine e Roma. Le indagini vanno avanti, l’inchiesta passa dal dottor De Gasperis al dottor Pititto, che incarica gli investigatori di fare arrivare in Italia alcuni testimoni oculari. Attraverso una seconda fonte, la Digos di Udine riesce a rintracciare tra gli altri, la «venditrice di tè», la guardia del corpo e l’autista della Alpi. È necessario un inciso. Dalle testimonianze raccolte in tribunale sono emerse due ipotesi sulla dinamica dell’agguato: una, secondo cui l’auto dei giornalisti è stata seguita dall’hotel Sahafi all’altro albergo, l’Amana, la seconda, invece, che l’auto dei killer era ferma di fronte all’Amana, in attesa che i giornalisti uscissero dall’hotel. Sulla seconda versione, i testimoni hanno dichiarato che i killer – durante l’attesa - stavano bevendo il tè. Poi, quando Ilaria e Miran sono usciti, hanno buttato via i bicchieri e sono partiti all’inseguimento della macchina. Da qui la necessità di sentire la venditrice. Adar Ahmed Omar viene rintracciata a Mogadiscio e arriva in Italia il 16 luglio 1998 per essere interrogata negli uffici della Procura di Roma. La donna dichiara di aver visto in faccia i somali a bordo della “Land Rover” blu perché alcuni di loro hanno preso il tè da lei, ma precisa di non essere stata presente durante l’omicidio perché in quel momento si trovava nel suo appartamento, lì vicino, per allattare la sua bambina. Nel frattempo, l’inchiesta passa ad un terzo magistrato, il dottor Ionta, e ciò si verifica due giorni prima dell’arrivo in Italia dei due testimoni. Le deposizioni dell’autista e della guardia del corpo vengono infatti raccolte dal dottor Ionta e dagli investigatori della Digos di Roma. Sempre come riferisce la seconda fonte, ci sarebbe stata una riunione, qualche giorno prima dell’omicidio, a casa di Ali Madhi (già presidente ad interim di Mogadiscio nord) con i suoi più stretti collaboratori: Giancarlo Marocchino (l’imprenditore italiano che per primo arriva sul luogo del delitto), Moussa Bogor (noto come «il sultano di Bosaso»), Omar Mugne (titolare della società di navigazione Shifco), Mohamed Sheik Osman (ex ministro delle Finanze somalo), e Gilao (capo della Polizia di Mogadiscio Nord, e già responsabile dei servizi segreti somali all’epoca di Siad Barre), nella quale si sarebbe deciso di uccidere la giornalista. Sempre durante l’incontro, sarebbe stato dato a Marocchino e a Gilao l’incarico di reclutare i killer. C’è di più. Secondo la fonte, qualcuno - tra il momento dell’agguato e l’arrivo dei soccorsi - avrebbe sottratto dall’auto dei giornalisti la macchina fotografica e tre fogli del taccuino rosso di Ilaria per consegnarli ad Ali Madhi. Ma non è finita. Anche sugli esecutori materiali vengono dati dei dettagli: sette il numero dei killer, tutti appartenenti al clan degli Abgal (il clan di Ali Mahdi). Di due, quelli che sarebbero scesi dalla Land Rover e avrebbero sparato, nel corso dell’udienza, il vicequestore Antonietta Motta fa anche i nomi e precisa che i due farebbero parte della polizia somala.

Luciana Alpi, la mamma di Ilaria, durante il presidio dei giornalisti
Luciana Alpi, la mamma di Ilaria, durante il presidio dei giornalisti

Il 7 maggio del 1999 entra a testimoniare in aula l’agente del Sismi, Alfredo Tedesco. Il pm Ionta mostra al teste un documento scritto a mano. Si tratta di una comunicazione riservata scritta dall’agente Tedesco ed inviata da Mogadiscio a Roma il giorno successivo all’omicidio, ovvero il 21 marzo 1994. Ecco parte del contenuto: «la giornalista italiana avrebbe ricevuto minacce di morte anche a Bosaso il giorno 16 marzo». Frase che qualcuno ha provveduto a cancellare. Chi ha cancellato le due righe? «Sì, confermo che è la mia grafia – ha chiarito l’agente -. [...] Queste correzioni non le ho fatte io. Queste correzioni qui venivano fatte all’arrivo del messaggio ». Da chi l’agente del Sismi aveva avuto la notizia delle minacce a Ilaria? Tedesco ricorda chiaramente «non da cittadini somali», poi i ricordi si fanno confusi: «forse da giornalisti, colleghi di Ilaria... mi dispiace ma non ricordo...» e spiega il motivo che avrebbe portato gli uffici di Roma a fare le “correzioni” in questo modo: «forse hanno ritenuto non valida questa informazione perché non proveniva da nostre fonti. Il servizio poteva avere anche a mia insaputa altre fonti». Il 9 giugno, è il momento più atteso dell’intero processo perché è il giorno in cui Giancarlo Marocchino è chiamato per essere sentito in aula. La sua presenza ha un duplice scopo: non solo testimoniare sui fatti di quel 20 marzo, ma anche cercare di difendersi. In diverse occasioni è stato fatto il suo nome come uno dei mandanti dell’omicidio. Marocchino viene introdotto in aula ma c’è un problema: è necessario chiarire la sua posizione, ovvero se deve essere sentito come teste o come imputato di reato connesso. L’imprenditore è infatti indagato dal gip di Asti [sarà sentito il 15 giugno, nda] perché avrebbe sottratto dei documenti dall’archivio del Fai e dell’Ambasciata italiana a Mogadiscio, nel periodo che va da marzo 1994 a novembre 1995 . Tuttavia, dopo aver chiesto delucidazioni all’avvocato Stefano Menicacci, legale di Marocchino che è presente in aula, interpellati il pubblico ministero e gli avvocati (solo l’avvocato Calvi – legale degli Alpi - manifesta l’opportunità di ascoltarlo come imputato di reato connesso, ndr), la Corte dispone l’audizione dell’imprenditore in veste di testimone. Marocchino ricostruisce i momenti successivi all’omicidio, quando lui arriva sul luogo dell’agguato. Alla domanda dell’avvocato Calvi sul motivo che lo spinse a trasferire i due giornalisti sulla sua auto, l’imprenditore risponde: «L’autista mi ha riferito che c’era un guasto » e aggiunge: «è intervenuto il colonnello Gafo, lui era uno dei funzionari della polizia somala che comandavano Mogadiscio Nord. Lui ha fatto un rapporto dettagliato sull’accaduto e poi l’ha trasferito al suo superiore, al generale Gilao. Questo verbale è sparito e ne è comparso un altro dell’Unosom redatto dalla polizia di Mogadiscio Sud, dove ci sono scritte cose non vere». Che lei sappia, quel rapporto, indicava esecutori e mandanti? «Io ho avuto questo sospetto» - risponde. Alle richieste di chiarimento circa alcune delle dichiarazioni da lui rilasciate all’epoca dell’accaduto, Marocchino dà un’interpretazione diversa. Tra queste, una riguarda la frase «si vede che sono andati dove non dovevano andare». Marocchino risponde in maniera evasiva: «potevo riferirmi a tante cose, alla strada». Sollecitato dalle contestazioni dell’avvocato Calvi, il teste ammette: «Sì. In quel momento avevo pensato questo»; l’altra è la circostanza in cui l’imprenditore afferma di essere stato avvicinato da un uomo del Sismi - subito dopo l’omicidio – il quale lo avrebbe invitato a lasciare perdere la faccenda, che tanto si sarebbe dimenticata presto. In aula, però, dà un’altra versione, ovvero che l’invito sarebbe stato in relazione alla sua intenzione di reagire a quelle voci messe in circolazione a suo danno, perché le voci si sarebbero dimenticate presto. È deciso invece quando conferma che «nessun militare italiano arrivò sul luogo dell’agguato. Mi lasciarono solo come un pirla». Altro punto affrontato in aula riguarda l’espulsione di Marocchino dalla Somalia da parte degli americani, che l’accusavano di trafficare armi. Per questo motivo, il 29 settembre 1993, l’imprenditore viene arrestato e espulso da Mogadiscio. Espulsione che si conclude con la revoca del provvedimento da parte dello stesso Jonathan Howe che lo aveva accusato: la lettera è datata 18 gennaio 1994. In più, della questione, si è occupata la Procura di Roma. L’inchiesta affidata al pm Saviotti si è chiusa con l’archiviazione (17 luglio 1995), dopo un giro di documenti trasmessi dal ministero della Difesa e dal ministero degli Esteri: esiste una busta coperta da segreto di Stato.

Intanto i genitori di Ilaria decidono di non partecipare più alle ultime udienze. Per loro «il processo è una farsa: tutti i testimoni che si sono avvicendati hanno mentito, hanno detto bugie, hanno affermato di non ricordare». Il 30 giugno si procede con le consulenze da parte dei periti. Ci sono ancora contraddizioni: da una parte c’è la consulenza collegiale (indagini preliminari) che parla di un colpo esploso a breve distanza da un’arma a canna corta, dall’altra adesso la nuova perizia dei due consulenti che parla di un colpo accidentale, che avrebbe colpito Hrovatin e poi Ilaria. Il 20 luglio 1999: Hashi viene dichiarato non colpevole. Il pm Ionta e il procuratore generale Salvatore Cantaro fanno appello chiedendo l’ergastolo per Hashi: è il 20 ottobre del 2000 quando inizia il processo. Hashi è ancora una volta imputato: il procuratore generale Salvatore Cantaro ne ha chiesto la condanna. Tutto si rimette in discussione e, stavolta, basta un mese. Un mese per ascoltare le testimonianze, due quelle importanti. Francesco Chiesa, operatore della Tv svizzera italiana, rivela alla Corte che il frammento di proiettile (di Kalashnikov, come hanno verificato i periti) non è stato trovato sul sedile posteriore, accanto al corpo di Ilaria, ma su quello anteriore, vicino a Miran. Al contrario di quanto fin qui si era creduto: la prima versione, quella su cui si è basata anche l’ultima perizia, riporta erroneamente il ritrovamento del frammento accanto a Ilaria. Frammento che fu inviato dal giornalista Vittorio Lenzi ai genitori di Ilaria. Proprio lui, insieme a Chiesa, quel 20 marzo 1994, ha ripreso la scena dell’agguato, intervistato Marocchino e accompagnato i giornalisti Porzio e Simoni a recuperare i bagagli di Ilaria e Miran al Sahafi. Proprio lui che non ha potuto testimoniare al processo di primo grado: è deceduto dopo un incidente stradale. Il 24 novembre, alle 15.30, il presidente della Corte Francesco Plotino emette la sentenza: Hashi Omar Hassan è ritenuto colpevole di omicidio e viene condannato all’ergastolo. Hashi sarà scarcerato dopo 17 anni di reclusione durante il processo di revisione di Perugia del 2017 per non aver commesso il fatto e gli sarà riconosciuto un risarcimento di 3 milioni di euro. Nelle motivazioni della sentenza si legge che Gelle (testimone chiave) potrebbe essere stato coinvolto in un’attività di depistaggio di ampia portata.

Dieci anni dopo l’omicidio viene istituita la Commissione parlamentare d’inchiesta, presieduta dal presidente Carlo Taormina. La prima fase dell’attività della Commissione è quella di disporre la consulenza medico legale e balistica per ricostruire la dinamica dell’agguato e chiarire la distanza del colpo esploso. Quindi viene riesumato il corpo di Ilaria. L’esito dei primi esami confermerebbe il colpo sparato a bruciapelo. Dopo un anno: la Commissione ripercorre tutte le piste, tra i ricordi sbiaditi di alcuni testimoni, la volontà di tacere o di raccontare bugie o l’impossibilità di sentirli: molti sono morti, alcuni in circostanze poco chiare. È il caso di Abdi, l’autista di Ilaria e Miran o del responsabile della sicurezza dell’hotel Amana (testimone oculare), che risulta deceduto ma non si conoscono le cause né il periodo. La stessa cosa succede al poliziotto somalo che scrisse una relazione sulla morte della giornalista e dell’operatore. Muore l’operatore che aveva girato il filmato subito dopo l’agguato. Tante morti sulle quali la commissione non ha indagato. Taormina dopo un anno di lavori della Commissione fa delle rivelazioni importanti: “La Commissione, infatti, è certa che la morte di Ilaria e Miran sia da ricercare nei traffici inconfessabili intercorsi tra la Somalia e il nostro Paese. Armi, rifiuti tossici, tangenti legate alla nostra cooperazione”. Nel corso della seconda fase delle indagini, ad un certo punto però la maggioranza della Commissione sceglie un percorso diverso, quello in qualche modo indicatogli da Giancarlo Marocchino su “un tentativo di sequestro finito male”. A screditare questa ipotesi, interviene a luglio del 2005, l’esito della relazione preliminare (la perizia medico-legale e balistica). Stando alla nuova perizia, si sarebbe trattato di un agguato. Nel 2006 è il momento di consegnare la relazione finale: La Commissione ne presenta tre invece di una. Questo perché le conclusioni a cui arrivano i membri della maggioranza non sono condivise dagli altri di opposizione. Secondo la Commissione parlamentare d’inchiesta, infatti, si trattò di un “tentativo di sequestro finito male”. Il rapporto di minoranza è contrario alla relazione della maggioranza. Per l’opposizione non ci sono dubbi: “Il caso rimane aperto in quanto le causali non sono state chiarite, non sono stati individuati gli esecutori e i possibili mandanti”. Infine, viene presentata la relazione a firma dell’onorevole Bulgarelli del gruppo dei verdi, che definisce «del tutto lacunose» le conclusioni a cui la Commissione è giunta in due anni di lavoro. In questi anni sono emerse due tesi opposte: una è quella della Commissione parlamentare d’inchiesta, secondo la quale Ilaria Alpi e Miran Hrovatin sono stati uccisi per un tentativo di rapina finito male. L’altra è invece del Gip della Procura di Roma che nel 2007 ha respinto la richiesta di archiviazione avanzata dal pm Ionta. Secondo il gip, si è trattato di un omicidio su commissione per impedire a Ilaria e Miran di portare a conoscenza dell’opinione pubblica le loro inchieste in terra somala (traffico d’armi e di rifiuti tossici). Movente confermato anche dalle informative del Sisde, emerse dagli atti declassificati della Commissione parlamentare d’inchiesta.

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