C’è chi lo conosce soprattutto con il vero nome, Ramon Verdoia. Poi ci sono gli amici, che lo chiamano Bircide dal 1987. E poi ci sono circa 245mila follower che su Facebook lo conoscono, semplicemente, come Paninaro. Che è anche il nome della sua pagina, creata nel 2009. “Divulgare il paninaresimo – afferma Ramon – è la mia missione”. Perché di fede laica, frivola e modaiola, si è trattato, ma… Tutti i “ma” del caso li abbiamo affrontati proprio con Ramon.
La tua pagina Facebook è esplosiva. Ti sei spiegato il perché di un successo simile?
La mia pagina viene da lontano, nasce da un’esperienza pre-social, da blogger. Scrivevo per il sito Troppo giusto, creato da Paolo Noise (Zoo di 105), ed ero il blogger più attivo. Non funzionò granché e quando arrivò Facebook mi ci tuffai con entusiasmo. Su Instagram, ad esempio, ho meno follower perché i boomer – ebbene sì, i boomer sono il mio pubblico – affollano ancora Facebook. Il mio utente medio per l’80% viaggia fra i 45 e i 54 anni. Le città che mi seguono più sono Roma, Milano e Torino. Essenzialmente parlo a un pubblico che non ha rinnegato la propria gioventù.
Ora che di acqua sotto i ponti ne è passata, è possibile determinare un inizio e una fine del fenomeno paninaro?
Certo. E sul tema, nel 2013, ho scritto anche un ebook insieme a Matteo Ranzi, “Il ritorno dei paninari”, un seguito derivante dal successo di due miei film, di cui il secondo premiato a Siracusa su Rai2 nel 2014. Se vogliamo essere quasi scientifici possiamo stabilire che i paninari sono nati nell’estate del 1984. Tutto si è spento nell’inverno del 1988, sebbene il fumetto “Paninaro” continuò le pubblicazioni fino al dicembre 1989. Nelle isole e al sud il fenomeno è proseguito, come un riflesso, fino al 1992, ma il movimento era già finito. A Milano, addirittura, il vero paninaro si defilò dopo la nevicata del 1985.
Che ruolo ha giocato il fumetto nell’esplosione del fenomeno?
C’è un prima e un dopo. Prima che uscisse il fumetto, i paninari erano solo a Milano o vicino a Milano. Il resto del nord si era sintonizzato perché i milanesi, d’estate, portavano l’estetica paninara nelle spiagge liguri o in Riviera. Tornati dalle vacanze tutti andavano a cercare l’uniforme giusta. Gente che partiva dal sud, con un treno interregionale, per andare nei negozi di Roma, Torino, Milano. Dopo la pubblicazione del fumetto, tutto si è sviluppato a macchia d’olio, toccando anche i piccoli centri.
Possibile pensare alla moda paninara come alla prima moda della globalizzazione?
Sì, di colpo un oceano di ragazzi vestivano marche nazionali e internazionali. Avevano mezzo mondo addosso.
Era quindi sufficiente indossare una determinata marca per definirsi paninaro?
No, affatto. C’era un modo di vestirsi. I colori giusti, i modelli giusti.
C’era qualcosa di equivalente, all’estero, fra il 1984 e il 1988?
Non proprio. Forse qualcosa di vagamente assimilabile, ma nulla che riguardasse le masse. In Inghilterra, fra i casuals, sugli spalti degli stadi, trovavi qualche simil-paninaro. Per questo i Pet Shop Boys rimasero folgorati quando vennero a Milano: all’improvviso videro compagnie di 30-40 persone, tutte vestite allo stesso modo, che frequentavano gli stessi luoghi. Anche Michael J. Fox in “Ritorno al futuro”, con il suo smanicato rosso simil-Moncler e le Nike, era un po’ paninaro, ma è azzardato affermare che gli americani fossero paninari.
Quale alchimia sta alla base di questa moda?
Bisogna tornare indietro a un tempo in cui viaggiare all’estero non era per tutti. C’era il figlio di papà che andava negli States e tornava con le Timberland. O andava a St. Moritz a sciare e tornava col Moncler. Nelle città italiane tutti questi feticci cominciarono a diffondersi e a mescolarsi, e da questa strana mescolanza nacque un look. Uno stile molto sgargiante che ti sbatteva in faccia una forte rottura estetico-cromatica rispetto al grigiore degli anni di piombo.
Chi sono state le autentiche icone pop paninare?
Il paninaro ha sempre subito molto l’influenza yankee. La prima Madonna è stata un simbolo (tanto che nacquero anche le “madonnare”), così come Michael Jackson fra “Thriller” e “Bad”. In Inghilterra Spandau Ballet e Duran Duran. Di certo il paninaro non ascoltava Cure, Iron Maiden o Metallica. La canzone di riferimento divenne “Wild boys” dei Duran Duran, ma per puro caso, perché Enzo Braschi la utilizzò per il suo personaggio al “Drive In”. A differenza dei Pet Shop Boys, Simon Le Bon e soci si accorsero molto più tardi del fenomeno.
Simon Le Bon, appunto. A tutt’oggi “Sposerò Simon Le Bon” (1986) è ancora il documento più fedele dell’epoca?
Sì. Tuttavia, al tempo, floppò alla grande. Rimase una settimana sola in sala. Tratteggiava un momento storico che i ragazzi pensavano non sarebbe mai finito, per cui andavano al cinema per ascoltare le canzoni dei Duran e quando si accorgevano che la pellicola non era sostenuta da alcuna colonna sonora duraniana uscivano a metà proiezione. Poi però il film iniziò a passare in tv e divenne un culto assoluto. Anche “Italian fast food”, che uscì lo stesso anno, era un film paninaro, ma suonò come una presa in giro. Si narra che Enzo Braschi, durante le riprese, fu anche malmenato da alcuni paninari.
È uscita una recente intervista a Sandy Marton – che anche tu hai condiviso sulla pagina – che getta una luce anche torbida ed eccessiva su quell’epoca..
La italo-disco non era però una musica prettamente paninara. I paninari non avevano una loro musica.
Ma fra i paninari girava droga?
Diciamo che all’epoca venivano considerati anche paninari tutti quelli che – non potendosi permettere di spendere un milione al mese in vestiti; il tutto gentilmente sponsorizzato da papà – derubavano i ragazzini di 15 anni per strada o facevano razzia di giubbotti nelle discoteche. Poi andavano a fare i fighetti in piazza Liberty o in San Babila. Gente che veniva dalle curve, prevalentemente. Alcuni di loro erano anche dei tossicodipendenti, personaggi in qualche modo famosi all’epoca. Ma erano situazioni collaterali, che non appartenevano al paninaro tipo.
Situazioni molto diverse da quanto accadeva invece appena prima del 1984…
I primi paninari, fascisti e nerissimi, lo erano senza saperlo. Si ritrovavano in piazza Liberty. Non volevano essere associati al fenomeno, ma di fatto… Se vedi il film “San Babila ore 20: un delitto inutile” (1976) si vede già un embrione violento e nero del fenomeno paninaro, ma poi gli autentici paninari degli anni ’80 – quelli che si aggregano al famoso Burghy in San Babila arrivando abbronzati in sella a una Cagiva Elepant o una Zundapp –, sono stati un inno al disimpegno e al consumismo, ragazzi che si svincolano nettamente dalle esperienze dei fratelli maggiori, politicizzati, che magari andavano in giro a manganellare i comunisti.
I classici galli in Ray-Ban, insomma…
Non basta la marca, come dicevo. “Top gun” ha esercitato una grande influenza, ma i veri Ray-Ban paninari erano il Wayfarer tartarugato o gli Olympian ( modelli 1, 2 e deluxe “Easy rider”, ideali per andare in moto). Poi ci voleva la cintura di El Charro, il Moncler, e ancora prima del Moncler il bomber...
Consumismo spinto, brand… Tu sei un metropolitano, diciamo, ma sei cosciente del fatto che soprattutto in provincia la moda paninara spaccava le famiglie?
Dappertutto, in realtà. È stata una moda che ha creato anche un senso di emarginazione, non solo di appartenenza. Il ragazzo che non poteva permettersi di essere paninaro veniva guardato dall’alto al basso da chi poteva permetterselo. Era la forza degli status symbol. La prima volta che calzai le Timberland tre ragazze si gettarono ai miei piedi per guardarle da vicino, per ammirarmi.
Oggi il paninaro invecchiato rinnega quel passato o si diverte a rimembrare?
Alcuni hanno completamente chiuso la parentesi, ma alla maggior parte piace ricordare i bei tempi andati. E c’è anche chi, ancora oggi, prova a vivere il fenomeno. Alcuni di questi sono persone che cercano una rivincita, quelli che all’epoca vestivano Mike o West Company, le marche taroccate. Io stesso, all’epoca, il 125 non lo avevo. Adesso ho il garage pieno di moto. È La mia personale rivincita.
Una moda senza una vera eredità, quindi?
Temo di sì. Ai raduni i più giovani si presentano vestiti come nel 1985. Non vedo una vera evoluzione, nonostante i brand storici siano ancora molto attivi. Il mondo è cambiato, si va avanti.
Però i raduni ci sono ancora.
Quest’anno ce ne sarà uno grande, estivo, appena dopo la chiusura dell’anno scolastico. A Torino, in via Buozzi, di fronte allo store Avirex e Timberland.
Ma oltre ai raduni?
Vivo il paninaresimo quotidianamente. Negli anni, a Torino, ho creato un gruppo di una trentina di persone. Ci ritroviamo ogni weekend, facciamo gite in moto, giriamo in centro. Il punto d’incontro è sempre in via Buozzi, per questo il raduno sarà lì.
Avete un obiettivo?
Che ci si accorga di noi. Di un fenomeno di nicchia che ancora non è morto.
E il giornalino?
L’anno scorso ho pensato di crearne una nuova versione insieme a Fabrizio Provenziano, grafico, e Chris Pace, che ha realizzato il fumetto. “Bircide Il Paninaro” esce in 100 copie cartacee. La veste è molto curata.