Venivo considerata “la bambina strana”. Non perché facessi cose assurde, ma perché a sette anni sapevo a memoria “Nu jeans e ‘na maglietta” e le sigle dei cartoni animati rigorosamente anni ’80. La verità è che mia madre è fan di Nino D’Angelo da sempre, e io sono cresciuta così: con le sue musicassette, la voce di Nino che riempiva la nostra casa mentre ascoltavamo “Maledetto treno” a tutto volume. La prima canzone che ricordo di aver imparato a memoria. Per me era normale, come lo è ancora oggi a distanza di più di vent’anni. Poi ho iniziato a frequentare le elementari, e lì ho capito che normale, per gli altri, non lo era affatto. “Ti piace Nino D’Angelo? Ah, allora sei napoletana!” Me lo dicevano come se fosse un’accusa. Ma io non ero napoletana. E nemmeno Nino in quel contesto era un artista, ma lo zimbello. La sua arte trasformata in presa in giro. Le sue canzoni etichettate come “roba da terroni”. E io, per estensione, ero tutto questo. Ammettiamolo, la verità è che i bambini non nascono razzisti, ma imparano presto a discriminare ciò che a casa sentono ridicolizzato. E il napoletano, per tanti, è ancora oggi sinonimo di vergogna, di folklore da evitare. Così, un ragazzino può diventare bersaglio solo perché rappresenta qualcosa che gli altri non capiscono. Come è successo a Paolo Mendico. Aveva solo 15 anni. Si è tolto la vita a Santi Cosma e Damiano, nel sud della provincia di Latina. “Lo chiamavano Paoletta. Lo chiamavano Nino D’Angelo”, ha raccontato la madre. E quando ho letto queste parole ho sentito un dolore misto a fastidio che conosco bene. Quello di sentirsi derisi per qualcosa che ami. Con la differenza che io ho avuto la fortuna di aver imparato a fregarmene, e lui no.

Ancora oggi, che di anni ne ho 30, quando dico che ascolto Nino D’Angelo la gente ride. Ma non discuto. Perché chi deride senza conoscere non critica: vuole solo mettersi in mostra per avere cinque minuti di finta gloria. E io non mi adeguo, non mi difendo. Non mi serve. So chi sono. E so anche che non è normale morire a 15 anni per il bullismo. Non dovrebbe succedere. Mai. Nino D’Angelo, appena appresa la notizia, ha scritto un post su Facebook. Una risposta accorata, incredula, devastata. E io le sue parole voglio riportarle per intero. Perché ogni frase è necessaria: “Come si fa, come si fa a trovare una ragione, una spiegazione a questa cosa... lo mi sento piccolo piccolo e non so trovarla. Qual è potuta essere la solitudine che ha confuso i pensieri di questo ragazzino di nome Paolo, fino a portarlo a fare un gesto simile. Dov'eravamo noi, tutti noi che oramai sappiamo sempre poco dei nostri figli, dov'eravamo e dov'erano le parole che avrebbero dovuto far capire agli amici di Paolo che certe cose non si possono dire, fanno troppo male, ma così male che possono uccidere un ragazzino della loro stessa età... Perdonaci Paolo se non abbiamo saputo aiutarti e scusami se ti hanno dato il mio nome”. Questa frase mi ha stretto lo stomaco: “Scusami se ti hanno dato il mio nome”. Come se portare il nome di Nino D’Angelo dovesse suonare come una vergogna. Ma non lo è. Non lo è mai stato. È cultura, musica, identità, radici. Per me è casa. Il problema non è il nome, ma chi lo usa per ferire. Siamo tutti diversi. E questa è la nostra forza. Nessuno dovrebbe sentirsi in pericolo per quello che è, o per quello che ama. Eppure accade. Ma bisogna imparare a fregarsene. Lo dico da una che ci è riuscita. E che continuerà ad ascoltare Nino, sempre. A prescindere da tutto.

