Le tensioni geopolitiche con gli Stati Uniti e gli strascichi della guerra commerciale silenziosa intrapresa da Washington. La pandemia di Covid-19, con la sua lunghissima ed estenuante stagione di chiusure e congelamento delle attività commerciali. Infine il rallentamento dell’economia dovuto a molteplici fattori, tanto interni quanto esterni, alcuni fisiologici altri inaspettati. Il risultato di tutto questo è una Cina oggi distante anni luce da come l’avevamo conosciuta prima del 2019, l’anno spartiacque che ha segnato il mondo intero con lo scoppio della prima emergenza sanitaria diffusa su scala globale. Pechino ha smesso da tempo di essere come l’Occidente vorrebbe che fosse. Il gigante asiatico ha preso atto di un ambiente ostile e ha scelto di intraprendere un percorso di sviluppo autoctono. A dire il vero aveva scelto di farlo fin dalla sua apertura parziale al mercato, nel 1978, anche se troppi commentatori nostrani hanno frainteso – e continuano a farlo – la strategia adottata dall’allora leader cinese Deng Xiaoping, immaginando che ben presto, grazie alla magia del libero mercato, la Cina sarebbe diventata una democrazia di stampo liberale. Sogni, illusioni, wishful thinking. La Repubblica Popolare Cinese ha continuato a crescere seguendo i propri dogmi, le proprie parole chiave, i propri obiettivi.
Trasformazione in corso
Negli ultimi 45 anni ha subito almeno due importanti trasformazioni fisiologiche, mentre la terza è adesso in fase di completamento. In seguito alla richiamata riforma economica del ’78 e all’ascesa pacifica narrata dal governo cinese, con la salita al potere di Xi Jinping (2013) il Dragone ha capito che era arrivato il momento di mettere in chiaro le cose con un Occidente che, dal punto di vista di Pechino, stava diventando sempre più pressante con richieste e aspettative inaccettabili. Lo scontro economico con gli Usa e la pandemia hanno accelerato la mutazione cinese. Che cosa sta diventando, allora, la Cina? Quali traiettorie sta inseguendo? C’è chi ha parlato di “fine del miracolo cinese”, auspicando un progressivo deterioramento della stabilità del gigante asiatico, e chi ha sottolineato come Xi starebbe cercando di smarcarsi dai legami strategici con il blocco occidentale per creare un mondo multipolare a trazione pechinese. In mezzo a queste due posizioni estreme e drastiche troviamo una realtà difficile da interpretare. La sensazione è che oltre la Muraglia sia in corso una specie di Rivoluzione Culturale in versione soft, controllata dall’alto e volta a smussare gli angoli della società civile incapaci di adattarsi alla nuova era in arrivo. La scelta di anteporre la sicurezza interna e il rafforzamento militare a molti altri temi in passato considerati must imprescindibili, è un chiaro esempio del processo in corso d’opera. Attenzione però, perché tutto questo non significa che la Cina chiuderà le porte del suo immenso mercato alle aziende occidentali. Pechino sarà infatti ben lieta di approfondire la cooperazione con quei soggetti stranieri portatori di un know how o un plus ultra richiesto dalle esigenze del Paese (vedi l’esempio delle aziende tedesche, in primis Mercedes, per quanto riguarda lo sviluppo delle auto elettriche). Intanto, Pechino ha vietato ai funzionari statali di usare iPhone per motivi di lavoro, mentre una nebulosa proposta di legge, ancora in fase di definizione, mirerebbe a mettere al bando non meglio specificate mode “dannose per lo spirito cinese”. Per i trasgressori si parla di una pena di un massimo di 15 giorni di detenzione amministrativa e circa 650 euro di multa.
Le aspettative dell’Occidente
Se è vero che ogni trasformazione porta con sé dei cambiamenti radicali, alcune caratteristiche della “nuova Cina” sono ben visibili da una semplice sguardo all’ambito turistico. Sei mesi dopo che Pechino ha riaperto le sue frontiere dopo la stagione del Covid, sono ancora pochi i viaggiatori internazionali che scelgono di visitare l’ex Impero di Mezzo. Sia chiaro: molti di loro magari vorrebbero farlo ma, trovandosi ad affrontare una realtà spesso complicata, sia dal punto di vista burocratico che logistico, alla fine preferiscono optare per altre mete. Il numero di visitatori stranieri accorsi nelle principali città del Paese, come Shanghai e Pechino, nella prima metà dell’anno ammontava a meno di un quarto delle cifre riscontrabili, nello steso periodo preso in esame, nel 2019. Come ha sottolineato il Wall Street Journal, a livello nazionale, nel primo trimestre, sono giunte in Cina appena 52.000 persone dall'estero, attraverso viaggi organizzati dalle agenzie di viaggio, rispetto ai 3,7 milioni del 2019. Come negli anni passati, quasi la metà di questi visitatori proveniva da Taiwan e dai territori cinesi di Hong Kong e Macao, anziché da Stati Uniti o Europa. Al netto delle conseguenze economiche del calo del turismo, che potrebbero pure essere in parte attutite dall’immensa riserva di abitanti autoctoni, restano da considerare gli aspetti socio-politici della mutazione in corso. Già, perché meno turisti e uomini d'affari dall'estero significa meno opportunità per gli stranieri, per lo più occidentali, di vedere la Cina con i loro occhi e interagire con la gente del posto. Europei e statunitensi stanno progressivamente svanendo, sostituiti da turisti di località terze. Basta fare un giro in uno degli aeroporti principali della nazione, il Beijing Capital International Airport, per osservare uno scenario inedito e inimmaginabile fino a pochi anni fa. Incontrare un occidentale che non si trovi lì per fare uno scalo è quasi un’impresa. Al contrario, è molto più facile imbattersi in viaggiatori asiatici, addirittura africani e latinoamericani. Quindi possiamo affermare che la Cina non voglia più occidentali tra i piedi? Niente affatto. Semplicemente, almeno in questa fase di riequilibrio geopolitico mondiale, chiunque intenda visitare la Repubblica Popolare Cinese dovrà farlo adattandosi alle esigenze del Dragone e non più viceversa. Agli occhi di Xi, le necessità del popolo cinese e del Paese valgono più di ogni possibile lamentela del turista occidentale medio.