Irene Saderini vive una vita da stuntman senza prendersi sul serio, anche se tutto quello che mostra - dall’Erzberg Rodeo alla guerra in Afghanistan - l’ha fatto veramente. Quando la chiamo per un’intervista sul conflitto scatenato da Vladimir Putin e sulla MotoGP risponde con un fermo no grazie. Mi dice “vedi te se è il caso”, e ha ragione. Così passiamo quasi un’ora al telefono in cui si ride pochissimo. Irene si raccomanda di non scriverlo, ma dice che sta facendo il possibile con quello che ha per aiutare chi è in Ucraina. Dice anche che questi giorni la stanno facendo riflettere sulla sua vita, sul dover recuperare persone che ha perso durante il cammino: “Perché in questi momenti - spiega tra una domanda e l’altra - ti rendi conto che gli affetti sono davvero le uniche cose che contano. Allontanare le persone è un errore brutto ed è triste, io forse ho un po’ dimenticato chi sono”. Dice anche di cancellare le parolacce, infatti ne troverete pochissime. E conclude confermando che si, la terza guerra mondiale potrebbe essere già iniziata.
Eri velista, ma prima della MotoGP hai fatto la giornalista di guerra. Come è successo?
“Beh, provo a semplificare. La vela mi ha portato a scrivere, ho iniziato molto giovane per un magazine tecnico, facevo collaudi: al posto delle macchine provavo le barche. Avevo perso una campagna olimpica e non sapevo che fare della mia vita, ma scrivere mi piaceva, direi che sono stata fortunata. Il giornalista per me, a quel tempo, era quel lavoro lì, l’inviato di guerra. Sai, all’epoca ero piena di buoni propositi. Ero un’illusa in senso positivo, avevo grandi ideali. Poi ho scoperto che non serviva a niente”.
E un giorno ti hanno spedita in Afghanistan.
“Non è così semplice, devi essere formato. In guerra devi saperti muovere coi militari, quindi vieni mandato a Pratica di Mare, dove c’è una base di addestramento e ti insegnano a camminare con loro, a sederti, a capire i militari. Da lì sono arrivata a coprire una guerra minore che non è così distante dalle dinamiche di cui parliamo oggi. Sono stata nel Nagorno-Karabakh, era una guerra in cui si sparavano tanto tutti i giorni e sono le stesse etnie di quelle che si stanno uccidendo oggi. Dopo quella sono passata all’Afghanistan”.
Il primo approccio come è stato? C’era della leggerezza?
“L’ambiente degli inviati in guerra - a prescindere dal fatto che possano essere giornalisti, militari o civili - è molto preciso. Non c’è nessuno che ride davvero. In quegli anni piovevano razzi, non c’era granché da ridere. Certo, io ho le foto dove sorrido, il momento in cui ti rilassi c’è, ma in guerra ci vanno i professionisti. Ed è una roba molto seria. Ti faccio un esempio pratico: durante l’addestramento ti insegnano a mettere i piedi esattamente dove li ha messi quello davanti per non far esplodere una mina. Ti devi abituare a pensare otto, nove volte prima di fare una cosa banale, che sia prendere un telefono o accendere una luce. Devi sapere cosa puoi fare e cosa invece no”.
Cosa ti ha segnata di più?
“La cosa che trovo drammaticamente simile rispetto a quello che sta succedendo adesso è che non ci sono regole. Sparano sui civili, bombardano gli ospedali… quando ero in Afghanistan scoppiavano le macchine. Io non sono giovanissima, ma neanche così vecchia. Eppure mi accorgo di ragionare come un vecchio quando dico che sono dinamiche che si ripetono sempre uguali: la guerra lampo non esiste. Invece tutti insistono. Lo ha detto Bush, lo hanno detto anche quando la Russia ha invaso la Georgia. Anche Hitler voleva fare un’invasione lampo. Io forse non ho le competenze adatte per dirlo, ma quello che vedo è che questa roba non sarà breve”.
Pensi che andrà tutto a fuoco?
“Non ho un’idea, ho una paura. E la paura - è brutto da dire - è che finché resterà una cosa tra di loro noi saremo ok, forse le nostre coscienze no ma noi si. Però temo che se la NATO dovesse intervenire ce lo ritroveremmo tutti in quel posto ed è facile che accada. Se interviene la NATO siamo in guerra. Ripeto: io non ho una risposta, io ho paura”.
Cosa ti ha fatto dire basta?
“Ad un certo punto ti rendi conto che vivi in una bolla fatta di sensi di colpa. Hai sensi di colpa per le cose che vedi perché non puoi fare niente. Hai sensi di colpa nei confronti di chi è a casa che ti aspetta, perché tu sei lì e ti dicono che sei un egoista. E nei confronti degli amici, degli affetti. Sensi di colpa perché non puoi telefonare a casa, è pericoloso farlo. Sensi di colpa per la miseria. La miseria è imbarazzante per chi non è povero. Io ero lì con l’iPhone, mi sentivo male. Oggi non me la vivo bene, perché questa guerra mi riporta ai ricordi delle persone che ho conosciuto in Afghanistan. Persone con cui fai amicizia. Io non riesco più a vedere il telegiornale perché quelle persone lì con la gabbietta del cane, le valigie e quattro stracci hanno uno sguardo che riconosco. Sono persone che fino a due settimane fa avevano una vita. E in un secondo quelle persone diventano misere, tu leggi nei loro occhi che non possono più nascondersi”.
E dall’oggi al domani devono convivere anche con la pietà che la gente prova per loro.
“Perdere tutto è devastante. Ma quando vai a dare loro una mano ti guardano, si sentono male, tu anche e non puoi farci niente. La guerra ti pone su di un piano molto pratico. È il fallimento della politica, ma ti obbliga a stare sul pratico. Tu a un certo punto devi fare la cacca davanti a tutti e non solo perché hanno tirato giù le case, ma perché non è una buona idea appartarsi in guerra. E ti toglie tutto. Devi dormire con le scarpe, perché probabilmente dovrai correre e potrebbe succedere in qualunque momento. La guerra ti lascia solo quello che conta davvero, e tu che magari hai scelto di essere lì ti senti in profondo imbarazzo. Io ho avuto la fortuna di incrociare sulla mia strada Ettore Mo che un giorno mi ha detto una cosa che non avevo capito. Mi ha detto ‘Bambina - mi chiamava così - si vede che sei brava, ma stai attenta. Altrimenti questa roba ti inghiotte, vai via finché sei in tempo’. Pensavo volesse fare il gradasso, invece adesso ho capito. E per fortuna non ci tornerei. La guerra è una cosa che tieni molto lontana dai confini della tua anima”.
Ti è tornata su però, come l’odore della Sambuca.
“Si. Ti torna indietro. Io proteggo i confini della mia piccola anima, ma ho paura. E non condanno le persone, la gente che ride. Ognuno reagisce a suo modo. La cosa che trovo veramente anacronistica è che nel mondo delle criptovalute, del metaverso e di tutte queste storie ancora si tirano le bombe. Era fantastico farsi le guerre con l’alta finanza, era anche più elegante. Tirare le bombe è roba da preistoria. Sugli ospedali poi… Ma questi hanno ucciso i giornalisti! Non lo dico perché i giornalisti valgono di più rispetto ad altre persone, ma sappiamo tutti che uccidere i media è una dichiarazione di guerra. Perché dobbiamo far finta che non sia così? Questa roba qui mi fa impazzire. Io non voglio essere allarmista, spero con tutto il cuore di ridere di questa intervista fra tre o quattro mesi”.
Però tutto questo ci riporta, per forza di cose, a idee più concrete.
“Ma tutta questa roba ci arriverà addosso. Bolzano è più vicino all’Ucraina che alla Sicilia. Io cerco di leggere giornali esteri per capire cosa dicono in America, ma oltre a loro c’è anche la Cina e questo secondo me è il preludio reale e concreto di una guerra mondiale. Trovo un po’ naif che i capi di stato stiano provando a nascondere il sabbione sotto un tappeto piccolissimo. È evidente che sta per scoppiare la terza guerra mondiale. I russi se ne fregano di qualsiasi cosa, gli ucraini non ne vogliono sapere di deporre le armi e l’America sta continuando a mandare soldi e armamenti. Se a questo ci aggiungi le minacce della Cina ti rendi conto che non manca molto al disastro. Due settimane? Che altro devono fare per convincerci? E cosa pensi che succeda? Ci toglieranno il gas e sarà durissima. Come sempre la guerra è il fallimento totale della politica. Se fossi un politico oggi mi vergognerei”.