La brutale aggressione di Hamas contro Israele di sabato 7 ottobre ha aperto scenari complessi e problematici nella regione mediorientale. Per approfondirli, ne abbiamo discusso con Andrea Gilli, analista militare e Senior Researcher al Nato Defense College. Analizzando le questioni strategiche e le ricadute politiche regionali e non solo, tenendo a specificare che si tratta di opinioni strettamente personali e che non riflettono le posizioni dell'istituto per il quale lavora.
Gilli, l’attacco di Hamas ha sconvolto Israele e tutto l’Occidente. La crisi israelo-palestinese, però, ha radici più profonde. Quali sono le tappe salienti del percorso storico di questa rivalità?
Ci sono due popoli che si contendono un unico territorio: la Terra Santa. Gli ebrei, con il loro stato, Israele, e i palestinesi, che non hanno uno stato ma sono rappresentati da due principali organizzazioni, l’Autorità Nazionale Palestinese al potere in Cisgiordania e Hamas che controlla Gaza. Per capire le origini del conflitto vanno fatte tre puntualizzazioni storiche. A partire dal VIII-VI secolo AC, gli ebrei hanno più volte dovuto abbandonare la Terra Santa. Successivamente, per via dell’allargamento dei vari Califfati islamici, è aumentata la presenza di popolazioni arabe in Palestina. Infine, nella seconda metà dell’Ottocento, per via del dilagante antisemitismo in Europa e del crescente sentimento nazionale tra gli ebrei ashkenaziti, inizia e cresce il flusso migratorio ebraico verso la Terra Santa che continua poi nel corso dei successivi decenni. Inizialmente la Palestina era sotto il controllo dell’Impero Ottomano ma passa a quello Britannico dopo la Prima Guerra Mondiale, quando l’Impero Ottomano crolla e nascono gli Stati arabi moderni: Egitto, Arabia Sautia, Siria, Giordania e così via). Da allora non si è mai riusciti a trovare una soluzione politica che accontentasse le due parti, entrambe intenzionate ad avere il loro Stato sui territori che vanno dal Mediterraneo al Giordano e dal Sinai alle alture del Golan”.
Uno scenario complicato storicamente, e teso fino ai giorni nostri. In quest’ottica, che scenari ha aperto l'attacco di Hamas?
Lo Stato di Israele nasce nel 1948 e con una guerra contro praticamente tutto il mondo arabo. La storia di Israele è infatti caratterizzata da guerre con i Paesi arabi, oltre che al conflitto con i Palestinesi. Nel corso dei decenni, Israele è riuscito a siglare una pace prima con l’Egitto, nel 1979, e poi con la Giordania, nel 1994. Sotto l’Amministrazione di Donald Trump, vi è stata un’importante iniziativa diplomatica, gli accordi di Abramo, che hanno portato alla normalizzazione dei rapporti diplomatici tra Israele e Bahrain, Marocco, Sudan ed Emirati Arabi. Recentemente, l’Amministrazione di Joe Biden stava cercando di favorire un accordo analogo anche con l’Arabia Saudita. L’attacco della scorsa settimana mira a impedire questo risultato che, fattualmente, avrebbe isolato Hamas e l’Iran. Si passa dunque da una fase di relativa stabilità, ad un rischio di guerra regionale, tra Israele e Hamas, Israele e Hezbollah, eventualmente una nuova ondata di attacchi in Cisgiordania, dove Hamas ha interesse ad indebolire ulteriormente l’Autorità Nazionale Palestinese. In questa chiave si
spiega il dispiegamento di due portaerei americane nella zona.
Quanto c'entra l'errore dell'intelligence nel capire le mosse di Hamas nel "buco" di sabato?
L’apparato di difesa e di sicurezza di ogni Paese è costituito da più elementi. C’è una componente di pianificazione strategica. Poi c’è l’intelligence civile e militare. Ci sono le forze armate. Ci sono le forze di sicurezza interna. Nel caso dell’attacco di sabato, l’apparato di sicurezza di Israele ha fallito in primo luogo dal punto di vista strategico. La normalizzazione dei rapporti con l’Arabia Saudita mirava a indebolire Hamas e non si è considerato come Hamas avrebbe reagito. A ciò va aggiunto il fallimento dell’intelligence civile, che non ha colto questi segnali, e poi dell’intelligence militare, che avrebbe osservato addestramenti e preparazione militare ma non sarebbe riuscita a convincere i vertici politici della gravità della situazione. A ciò si aggiunge infine l’aspetto militare. Le forze armate esistono proprio per difendere territorio e popolazione in caso tutti gli altri strumenti falliscano. Anche per via dell’ingegno usato da Hamas, le forze israeliane non sono riuscite ad intervenire tempestivamente o efficacemente.
Quanto pesa sullo strapotere di Hamas il declino dell'autorità nazionale palestinese?
Direi che la questione va ribaltata. L’Autorità nazionale palestinese si è progressivamente indebolita per via della competizione politica rappresentata dall’ascesa di Hamas. Più fattori hanno contribuito a questo risultato. Il fanatismo religioso è spesso in grado di reclutare più adepti e fare maggiore presa sulla popolazione. Hamas viene generalmente vista come meno corrotta, anche perché, come Hezbollah in Libano, fornisce dei servizi sociali alla popolazione, utili anche al reclutamento. La logica terrorista di Hamas è efficace, almeno nel breve termine: colpendo l’avversario, si provocano le sue risposte che mietendo anche vittime civili accrescono il supporto popolare all’organizzazione.
In quest’ottica, la risposta di Tel Aviv è stata dura. Che scenari apre la risposta israeliana sul piano militare?
In primo luogo bisogna capire di che natura sarà la risposta. Per ora c’è un blocco verso Gaza e una serie di operazioni militari mirate, anche se molto distruttive vista la natura del territorio urbano. Il governo Israeliano si trova di fronte un difficile dilemma. Per neutralizzare le capacità militari di Hamas è necessario un intervento di terra. Un intervento di terra sarebbe però estremamente difficile e sanguinoso. Oltretutto, Hamas sfrutterebbe gli ostaggi in una guerra informativa. Senza un intervento di terra, al contrario, non solo il governo israeliano dovrebbe fronteggiare le critiche interne ma anche affrontare eventuali nuovi attacchi in futuro. Nel 2006, Israele lanciò una guerra di terra contro Hezbollah. Le forze armate israeliane mostrarono notevoli criticità. Dopo il conflitto, la leadership di Hezbollah confidò però che non avrebbero mai iniziato lo scontro se avessero saputo che Israele avrebbe risposto con tale durezza. In altre parole, c’è anche una dimensione di deterrenza verso il futuro.
Che cosa pensa del ruolo delle potenze regionali nella crisi? Come per esempio l'Iran.
Il conflitto Israelo-Palestinese è un conflitto locale, regionale e globale. Non si possono capire le sue dinamiche se non si guarda al ruolo di attori esterni quali gli altri Stati mediorientali e anche Potenze extra-regionali. Come detto, Hamas aveva una serie di ragioni specifiche per lanciare un attacco, ma la motivazione principale deriva dal tentativo di normalizzare i rapporti tra Israele e Arabia Saudita. Senza il sostegno dell’Iran e di altre potenze regionali, Hamas nel lungo termine non può continuare a combattere. Senza il conflitto israelo-palestinese, molti attori regionali perderebbero però influenza. Per questo bisogna ricordarsi che senza un corollario diplomatico-militare abbastanza robusto, un accordo di pace è difficile da raggiungersi.
Prima l’Ucraina, ora Gaza. In mezzo golpe in Africa e crisi regionali come quella del Nagorno-Karabakh. Il mondo si riempie di guerre e crisi e guarda al più delicato degli scenari: quello del Mar Cinese Meridionale. Cosa potrebbe succede se la Cina attaccasse Taiwan nel prossimo futuro?
Ovviamente sarebbe un quadro complesso e da scongiurare, anche per le ramificazioni. Attualmente, almeno a livello politico, alcuni stanno mettendo in competizione il supporto all'Ucraina con il sostegno ad Israele. Un evnetuale conflitto in Asia orientale aggiungerebbe un terzo fattore di competizione. Le capacità militari sono finite e così i sistemi d'arma, specie quelli più avanzati. La base industriale occidentale è in grado di produrre un numero limitato di munizioni al mese. Di fronte a tre conflitti, presto sarebbe necessario scegliere a quale dare precedenza. Si sommano poi altre considerazioni più ampie sul commercio internazionale e sulla disinformazione. Per rispondere compiutamente servirebbe una simulazione di crisi. Si può però aggiungere che da oltre un anno i Paesi occidentali pensano a come mantenere la loro postura di deterrenza, e quindi la pace, in Europa e in Asia. Non tutti erano convinti della criticità del Medio Oriente. L'attacco di sabato obbliga a rivedere e ripensare questi piani.