“Stiamo per fare la storia. Lo abbiamo promesso e lo abbiamo mantenuto” dice Itamar Ben-Gvir, con i pasticcini in mano. Sì, rovesciando un’eredità storica completamente annientata dalle azioni degli ultimi trent’anni e, ancora di più, di questi due anni di massacro e genocidio. Alla Knesset, con 39 voti favorevoli e 16 contrari, passa in prima lettura la proposta di legge di Limor Son Har-Melech del Jewish National Front (un partito di estrema destra nazionalista e sionista religioso) per imporre la pena di morte per terroristi colpevoli di aver ucciso un israeliano per motivi nazionalisti. La legge prevedere anche che i tribunali militari in Cisgiordania, a cui sono sottoposti solo i palestinesi (mentre i coloni israeliani sono sottoposti a giudizio dei tribunali civili), possano condannare a morte senza che i generali possano commutare la pena.
Questo è il next level della strategia di annientamento che l’estrema destra israeliana sta imponendo nei confronti di Gaza, strategia che non solo il governo Netanyahu sposa in pieno (per motivi principalmente di strategia politica) ma che viene letta come il coronamento di una narrazione ormai svuotata completamente di significato, quella della lotta al terrorismo, vera e propria bandiera di Bibi fin dai tempi in cui era ambasciatore alle Nazioni Unite. Se si tiene in conto il funzionamento della giustizia per i palestinesi e per gli israeliani, soprattutto nei territori occupati, è chiaro che questo disegno di legge non punti che alla alla legalizzazione della pena di morte non per i terroristi, ma per i palestinesi.
Le storture sono evidenti: un’inchiesta di +972 Magazine, Local Call e The Guardian ha mostrato che solo uno su quattro dei seimila prigionieri palestinesi è identificato dall’Idf come “militante”. A voler dare una definizione ampia di terrorismo (militanti = terroristi), il 75% dei palestinesi detenuti sono semplici civili che potrebbero essere accusati, dal momento che vengono identificati come “unlawful combatants” (combattenti illegali), di essere terroristi. E se su qualcuno di loro dovesse pendere un’accusa di omicidio potrebbero essere condannati, con processi sommari e spesso incui, a morte, senza possibilità di tornare indietro. Per l’unica democrazia del Medio Oriente una regressione reazionaria e pericolosa, in controtendenza con la crescente consapevolezza, nelle democrazie liberali, che la pena di morte sia non solo inefficace come deterrente, ma immorale.
Questa proposta di legge è anche platealmente asimmetrica ed etnocentrica, dal momento che mira a punire i terroristi colpevoli di omicidio ai danni di un israeliano. Ma gli israeliani che agiscono in modo terroristico, uccidendo per motivi nazionalisti i palestinesi in Cisgiordania? Come riportato ampiamente nell’inchiesta di Ronen Bergman e Mark Mazzetti (Uccidi per primo, pubblicata in Italia da Internazionale), raramente i coloni assassini sono stati condannati e quasi sempre la pena è stata ridotta o cancellata o commutata in brevissimo tempo. Difficile giudicare legittima una legge che discrimina apertamente i palestinesi. Il presunto cessate il fuoco intanto non regge e i bombardamenti continuano. Negare le colpe di Hamas sarebbe ipocrita, al pari di negare che Israele non aspettasse altro. La dialettica del terrore si nutre chiaramente di due diverse volontà di potenza, quella antisemita, nichilista e genocidiaria di Hamas, e quella estremista, fondamentalista, razzista e parimenti genocidiaria del governo di Israele. A questo, cioè la guerra aperta, si aggiunge ora il tentativo di ampliare il margine di manovra, già estremo, già vastissimo, di coloni fondamentalisti, criminali alla luce del sole.