Il tema della “conquista straniera” dell’economia italiana è un refrain noto, spesso ripetuto a gran voce quando importanti aziende del nostro Paese passano sotto il controllo di capitali stranieri. Protagonista in quest’ottica è in particolare la Francia, nazione le cui multinazionali occupano una posizione di rilievo nella filiera nostrana dei due settori maggiormente associati, nell’immaginario collettivo, al “Made in Italy”: alimentare e abbigliamento. Peccato che il settore alimentare di matrice industriale sia difficilmente distinguibile da un Paese all’altro sotto regole comuni e vedere gruppi come Parmalat o Galbani, per fare un esempio, in mano transalpina piuttosto che italiana faccia poca differenza. Questione simile per i grandi marchi del fashion ove la produzione è associata inevitabilmente a un contesto storico e territoriale ben preciso. A prescindere da tutto ciò, parlare di un’Italia sotto assedio e priva di armi per una vera competitività rischia di aggiungere caos a caos e, anzi, giustificare la svendita di asset strategici. Quando investitori stranieri bussano alle porte di aziende come Tim o Ita, parafrasando il motto dell’Italia contesa dell’Età Moderna, si agisce all’insegna del “Francia o Germania, basta che se magna”. In altre parole: venghino, Signori, il Paese ha il cartellino del prezzo bene in vista. Logica fallace intrisa di malcelato autorazzismo che si scontra con la realtà: in primo luogo, non possiamo da un lato esaltare la competitività delle nostre imprese all’estero e dall’altro guardare ogni apertura di mercato verso il Belpaese come una minaccia. In secondo luogo, è ora di chiudere la stagione mentale aperta negli Anni Novanta, che fa un tutt’uno di ogni settore industriale, dai biscotti ai missili, e capire che il problema si pone quando debole e fragile è quella serie di settori definiti strategici. Biomedicale, farmaceutico, tecnologie critiche, semiconduttori, automazione industriale, energia: il Made in Italy che vale la pena mantenere saldamente tricolore è quello dei settori di frontiera, dove si producono valore aggiunto, accrescimento occupazionale e crescita reale.
Le passate di pomodoro possono essere francesi o le nocciole turche, se questo si può barattare con l’espansione in settori critici come l’acciaio di gruppi come Marcegaglia, che ha concluso l’acquisizione del 100% di tutte le principali società della divisione prodotti lunghi in acciaio inossidabile della finlandese Outokumpu, innovando in profondità il settore. I dividendi delle borsette e dei tacchi italiani, la cui produzione mai sarà eradicabile dall’artigianato industriale nazionale, possono dirigersi tranquillamente verso Parigi e Londra finché l’occupazione non è intaccata. Sul fronte opposto, sarebbe piuttosto interessante sottolineare che in Italia nascono e crescono anche oggi campioni europei: pensiamo a Technoprobe, azienda del settore dei chip dell’area brianzola che vale oltre 3,5 miliardi di euro dopo la recente quotazione in borsa, o Faac Technologies, colosso dell’automazione per le abitazioni domestiche dal 2012 di proprietà della Curia di Bologna, che opera in 53 società in 29 paesi, in tutti e cinque i continenti, e raccoglie all’estero l’85% del suo giro affari.
Al contempo, Industria Italiana ricorda che Chiesi, Prysmian, Generali, Barilla stanno approfittando da tempo del rilancio della politica industriale in Francia. Aziende come WeBuild, Snam, STMicroelectronics e Saipem possono puntare sul business della nuova strategia di investimenti degli Usa di Joe Biden. E in generale i dati elaborati da PwC dicono che nel triennio 2018-2020 le aziende italiane hanno comprato oltre confine 499 imprese. La destinazione prediletta sono gli Stati Uniti, con 66 acquisizioni, così come le grandi economie dell'Eurozona, Spagna (54), Francia (52) e Germania (47). Ferrero e Campari mostrano che nel food and beverage l’Italia può anche espandersi; la citata Prysmian si struttura come “impero” multinazionale dei cavi. Diasorin, Brembo e Interpump sono le multinazionali “leggere” che si espandono nel settore delle tecnologie di frontiera, della meccanica, dell’automazione industriale. Nella vulgata pubblica, nei media e, cosa più grave, tra molti decisori politici le vicissitudini economico-industriali di questi attori spesso appaiono come invisibili. Ci si cura poco di queste realtà, spesso di successo, non raramente nate nella provincia, cuore profondo d’Italia, a cui si sta affiancando un virtuoso mercato di private equity nazionale. Le Cassandre del declino industriale dell’Italia sono tornate ad affacciarsi nel dibattito dopo la riapertura di casi come Tim e Ita, ma il Paese raccontato dalla realtà dei fatti smentisce il disfattismo.
Nonostante tre recessioni in quindici anni (2007-2008, 2010-2012 e 2020), nonostante il Covid, nonostante lo tsunami energetico siamo ancora tra le dieci più grandi economie della Terra. Nonostante una politica economica altalenante, il benessere diffuso non è stato del tutto raso al suolo. Al declinismo, imprese, manager e lavortatori hanno risposto rimboccandosi le maniche. Al vuoto della politica, l’ingegno italiano, che merita di esser messo a sistema, ha risposto conquistando i mercati nazionali e stranieri. La miglior risposta a chi parla di destini già scritti per un Paese che non si rassegna al declino.