La manovra serve ai politici a piantare bandiere: Forza Italia può rivendicare l’aumento delle pensioni, Fratelli d’Italia lo stop al Reddito di Cittadinanza, la Lega l’aumento della soglia delle partite Iva. Ok, fin qui nulla di nuovo rispetto alle aspettative. Più fini gli impatti sulla possibilità di maggioranza e opposizione di modificare le proprie narrazioni. E così oggi troviamo sulle posizioni più critiche del reddito di cittadinanza Matteo Salvini che a febbraio 2019 lo definiva un fondamentale “strumento di sostegno ai disoccupati e ai poveri che in Italia sono 5 milioni”. Mentre pronto a scendere in piazza contro la cancellazione del reddito stesso è il Partito Democratico che lo definì “fuffa e truffa” quando fu introdotto nel 2018. Per il resto, che cosa si rinviene? Misure strutturali? Giusto il taglio del cuneo fiscale confermato al 2% per i lavoratori fino a 35mila euro di stipendio lordo e alzato al 3% sotto i 20mila. Anche sull’energia la manovra piazza 21 miliardi di euro che bastano giusto per un trimestre (gennaio-marzo) confidando per il resto in novene per un repentino arrivo di Madonna Primavera. Non è questo il momento per voli pindarici, e il più saggio di tutti è stato il Ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti che tirando dritto ha prevenuto un assalto alla diligenza dei partiti (primo fra tutti la Lega di cui fa parte) alla Legge di Bilancio. E lavorando con l’apparato del Mef ha reso evidente che la Legge di Bilancio è spesso esagerata nella sua importanza mediatica proprio per la natura di totem politico.
Da qui una possibile provocazione: non è forse la Legge di Bilancio uno strumento sopravvalutato e in parte obsoleto? Essa segna convenzionalmente lo spartiacque tra due anni e l’allocazione delle risorse. Ma la realtà nell’ultimo biennio è stata diversa; è intervenuto il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza a spostare altrove (anche con soldi nostri) le politiche orientate alla crescita; sono emersi inevitabilmente nuovi vincoli di spesa e nuove sfide, come l’inflazione, che rendono problematico aspettare la fine dell’anno per dare le linee guida della politica economica nazionale.
Ogni anno la stessa storia: la manovra arriva in ritardo per i termini di presentazione alle Camere e alla Commissione Ue; dalla società civile e dall’impresa partono i timori per una non pronta approvazione; si invoca l’esercizio provvisorio, ovvero la mancata applicazione dei nuovi provvedimenti qualora la manovra non sia firmata entro il 31 dicembre dal Presidente della Repubblica; si comprime – di conseguenza – il dibattito parlamentare e con esso gli spazi di democrazia sostanziale a colpi di fiducia. Una legge presentata come il non plus ultra dell’azione governativa approvata in forma accelerata e alla rinfusa in nome del mantra del “fare presto!”: è possibile un dualismo tanto netto? Inutile ricordare che i governi italiani non sono riusciti a fare una manovra finanziaria entro la fine dell’anno per 33 volte, 20 consecutive dal 1948 al 1968, nel passato del nostro Paese e che mai questo ha significato la fine dell’economia nazionale. Inutile constatare che la maggioranza delle risorse ormai è erogata fuori manovra e che il rischio di trovarsi di fronte un rituale stanco che perpetra sé stesso assorbendo più sforzi politici del dovuto è concreto.
Anche il governo Meloni ha, in quest’ottica, inserito un fondo ben finanziato, da 800 milioni di euro, per misure a disposizione degli emendamenti dei deputati e dei senatori. Un pegno inevitabile all’assalto alla diligenza che Giorgetti ha limitato in fase di scrittura ma che sarà al centro di proposte, manovre del sottobosco politico, contrattazioni. E che di fatto è la fonte di buona parte delle dinamiche politiche che sfociano poi nella fiducia anticipata e nella compressione del dibattito in Parlamento. Tutto tempo che tra commissioni e politica potrebbe essere dedicato a progetti ben più meritori. Uno su tutti? Il potenziamento della capacità di gestione del PNRR da parte delle pubbliche amministrazioni e la messa a terra del piano di rilancio del Paese. Dimenticato nella fase finale del governo Draghi e ora da accelerare tenacemente. Senza perdersi troppo spesso nei rivoli infiniti del rituale della manovra.