Ius soli o ius scholae? In questi giorni si è riacceso il dibattito sulla concessione della cittadinanza italiana agli stranieri, in particolar modo ai figli di cittadini stranieri nati e/o cresciuti in Italia, e che proprio qui hanno completato uno o più cicli di studi. L’iter attuale per l’acquisizione della cittadinanza non prevede alcun tipo di agevolazione per i bambini o ragazzi stranieri che studiano o hanno studiato in Italia, anche se arrivati da piccoli, nemmeno se già cittadini dell’Unione europea. Proprio su questo delicato tema il segretario di Forza Italia Antonio Tajani, in occasione del meeting di Rimini del 22 agosto, ha affermato che secondo lui “essere italiano, essere europeo, ed essere patriota non è legato a sette generazioni, ma a quello che sei tu” aggiungendo anche che “se accetti di essere europeo nella sostanza, sei italiano ed europeo” fino a dire “io preferisco quello che ha i genitori stranieri e canta l’inno di Mameli all’italiano da sette generazioni che non lo canta”, gelando il centrodestra. In particolar modo Matteo Salvini non ha apprezzato per niente questa presa di posizione, ribattendo con un vecchio video di Silvio Berlusconi che, ospite di Fabio Fazio 15 anni fa, si dichiarava contrario allo ius soli e in parte allo ius scholae, dove il leader della Lega ha voluto sottolineare personalmente la sua contrarierà affermando: “Ascoltate le parole del grande Silvio”. La mossa ha ovviamente spiazzato FI e Tajani ha risposto: “Credo di conoscere bene il pensiero di Berlusconi e non credo che Berlusconi debba essere utilizzato per fare polemiche politiche”, anche se FdI non ha mancato di sottolineare che al momento lo ius scholae non rientra in alcun modo nel programma di governo. Lasciando però da parte i dibattiti, cosa significa concretamente attuare una legge per lo ius schoale? Vi racconto la mia diretta esperienza di italiana straniera, che ha dovuto in prima persona scontrarsi con questa realtà.
Non è facile comprende cosa possa significare una legge del genere per un ragazzo o una ragazza di origine straniera, ma proverò a farlo, raccontando un po’ della mia storia. Io – mi permetto di utilizzare la prima persona singolare – sono un’italiana di origine straniera e per questo, il tema dello ius scholae mi tocca direttamente. “Mi sorprenderebbe il contrario”, potrebbe dire chiunque cinicamente, anche solo leggendo il mio cognome in calce a un articolo, “Mihaylova”, evidentemente di origine straniera. Ma il punto è che oltre l’immagine, l’apparenza, le prese di posizioni di destra e sinistra e soprattutto la burocrazia, dietro a tutto ciò ci sono persone in carne e ossa ed è complesso far capire a chi non lo ha mai provato cosa implica non essere cittadini del proprio Paese, nella vita di tutti i giorni. Ben oltre ai dibattiti sul colore della pelle e il cognome.
Io sono nata in Bulgaria, Paese oggi parte dell’Unione europea, che mi rende dunque anche “cittadina europea”, ma sono venuta in Italia a soli 6 anni. Nel Paese in cui sono nata non ho mai studiato. Non ho mai completato alcun ciclo di studi, a oggi lì non ho nemmeno un’assicurazione sanitaria, perché dopo oltre vent’anni, più di un terzo della mia vita, qui in Italia, mi sento italiana. Tutta la mia vita è qui: sono madrelingua italiana, qui ho studiato dalla prima elementare fino alla quinta superiore, qui mi sono laureata alla Statale di Milano in Mediazione Culturale con un percorso di Studi internazionali, tra triennale e magistrale, e qui ho tutti i miei affetti e il mio lavoro. Potrà sembrare scontato dirlo, ma qui ho avviato la mia passione per la scrittura, laddove conosco anche la lingua bulgara (sono bilingue), ma dove tutte le mie attività, le mie esperienze di volontariato, di interprete e mediatrice culturale e persino – badate bene – di insegnante privata di italiano per stranieri sono qui. È sufficiente questo a rendermi italiana? Mi imbarazzo molto nel dirlo ma no, non è sufficiente. Si può anzi dire che tutto ciò non serva assolutamente a niente.
Chi mi conosce, ma anche chi non mi conosce, leggendomi, vendendomi e sentendomi parlare, non fosse per il mio cognome, dubiterebbe che io possa essere “non italiana” all’origine. “Ma parli benissimo, sembri italiana”. Mi sono sentita dire migliaia di volte. Eppure, questi sono i fatti e l’attuale iter per l’acquisizione della cittadinanza è un completo inferno burocratico che ho provato sulla mia pelle, di cui sono certa il 90% di politici non hanno minimamente idea. Ma tralasciando per un secondo la mia storia personale, il punto non sono io, ma che nella mia stessa situazione ci siano stati, ci siano tuttora e ci saranno centinaia di migliaia di ragazzi, stranieri qui, ma anche nel proprio Paese (Io stessa, di nuovo, di recente sono stata in Bulgaria, per rendermi conto che lì non conoscevo più nulla e proprio lì ero veramente una “straniera”.)
Immagiamo per un momento: una famiglia italiana si trasferisce negli Stati Uniti. Hanno un figlio piccolo, di appena 6 anni. Comprano casa, si integrano, il figlio inizia a frequentare le elementari. Lì, negli Stati Uniti, questo figlio cresce, diventa adolescente, vive i primi amori, le gite scolastiche, le prime vacanze con gli amici, il diploma, il vivere da solo da “fuorisede” all’università, il primo lavoro, la laurea e i ritorni in Italia, là dove è nato, sempre più radi. Prima una volta l’anno, a trovare l’anziana nonna, poi sempre meno. Fino a non tornare quasi più. Ora vent’anni dopo, sulla soglia dei 30, questo ragazzo è ancora italiano? O può essere e considerarsi finalmente un cittadino americano? Questa storia è ovviamente una storia di finzione, che ricalca al 100% il mio percorso, ma se pensiamo alle politiche di integrazioni degli stranieri degli Stati Uniti – che nonostante gli alti e bassi, sono anni e luce avanti, rispetto all’Italia e per questo li uso come modello – e torniamo poi invece qui e ora all’Italia, mi chiedo, si percepisce davvero che integrare delle persone che già esistono, che già sono parte della società, che già pagano le tasse, svolgono servizi, è alla base di qualsiasi società civile? In che modo questo potrebbe portare a un’invasione di stranieri – il timore di molti politici - dato che queste persone sono già qui?
So per certo che quando si pensa allo ius soli e allo ius scholae alcuni immaginino una specie di invasione di ragazzini africani "clandestini". Ma la situazione è ben diversa e molto più complicata di così, perché più che di africani e nordafricani si parla di ragazzini europei. Tra gli stranieri presenti in Italia, integrati e regolari, la maggioranza in percentuale è di cittadini romeni, albanesi, e ora ucraini. Sono tutti ragazzi europei, ma il trattamento, comunque per tutti, è il medesimo. Non che questo renda minore l’importanza di integrare ragazzini africani, asiatici e gli stranieri che vivono e studiano qui da molti anni.
Oggi io sono italiana ma non è stato facile. L’iter di richiesta di cittadinanza è davvero lungo ed è una costante lotta con la burocrazia che richiede dai due ai quattro anni, migliaia di euro e nessuna garanzia della riuscita. Vi riassumo cosa comporta. Oltre ovviamente a essere residenti da diversi anni in Italia (ma questo è ovviamente normale) bisogna: 1) avere un Isee minimo (come se essere poveri sia un fattore discriminante, ma evidentemente – mi rispondo - lo è) 2) recarsi nel proprio Paese di nascita e richiedere un atto di nascita originale, oltre a un casellario giudiziario per testimoniare di essere incensurati (fino a qui tutto ok, ma badate bene che questo viene richiesto anche se nel Paese di nascita non si è mai vissuti da adulti) 3) tradurre entrambi i documenti in lingua italiana, perché purtroppo il ministero degli Esteri non riconosce in alcun modo i documenti creati ad hoc in lingua inglese e dunque “internazionali” 4) rivolgersi a un notaio e far legalizzare il tutto con un timbro 5) fare richiesta avviando la pratica, attraverso un Caf, un avvocato, o anche autonomamente, ma a proprio rischio e pericolo, visto che qualsiasi piccolo cavillo burocratico penalizza 6) presentare un documento che attesta la conoscenza della lingua italiana (forse l’unica cosa davvero sensata) 7) presentare il tutto, ricordandosi che da protocollo tutti i documenti hanno una validità massima di 6 mesi e poi attendere fiduciosi. Prima o poi, forse, si spera, arriverà una risposta.
Ora, immaginate se dovete dichiarare di non aver commesso dei reati da quando siete nati all’età di 6 anni (che crimini dovrebbe fare un bambino di quell’età?), oppure immaginate di aver insegnato italiano, di essere madrelingua (ora persino giornalista, il che presuppone la conoscenza della lingua italiana!) ma di vedere la vostra domanda di cittadinanza essere respinta, per incongruenze dichiarate da un Caf. Nel mio caso è successo così: nonostante tutti i documenti in regola, la mia prima richiesta di cittadinanza italiana venne respinta con una bizzarra scusa “non hai presentato i documenti che dimostrano che conosci la lingua”. Ma come, proprio io che non solo sono madrelingua e laureata, ma ho anche insegnato italiano ai ragazzi a scuola? Ironia della sorte, senza la cittadinanza, anche con una laurea con il massimo dei voti, non potrei davvero insegnare in un istituto pubblico.
Oggi sono cittadina italiana, è vero, ma questo è quello che mi è successo anni fa, una prima volta. Dopo una lunga attesa di quattro anni la mia richiesta è stata rifiutata, senza avviso preventivo, per integrare una eventuale documentazione mancante. In quei casi chi ne ha modo può rivolgersi a un avvocato, oppure lasciare perdere e ricominciare da capo, come ho fatto io. Molti amici mi hanno detto allora “Perché non ti sposi?”, scherzando, ovviamente, ma del resto se lo può fare Belen Rodriguez, perché non dovrei anche io? Non mi sono mai sposata, a ora, e nemmeno penso sia giusto farlo per convenienza, solo per ottenere la cittadinanza (cosa che molti effettivamente fano) ma tutto ciò serve solo per sottolineare l’assurdità della situazione e il perché lo ius scholae non è una legge demoniaca, ma un fatto necessario e attuale. E non si tratta, davvero, di perdere identità nazionale, di liberalizzare i clandestini, o di rendere meno italiani gli italiani stessi. Si tratta solo di civiltà e di formalizzare la presenza di qualcuno che già c’è e chi non ha un’altra casa a parte l’Italia. Di rendere italiani degli invisibili. Voi, se foste quel bambino emigrato negli Stati Uniti da piccolo, non vi sentireste a tutti gli effetti americani?