Il trasferimento da 80 milioni di euro che ha portato il calciatore italiano Sandro Tonali dal Milan al Newcastle. L'acquisto, a cifre spropositate e con stipendi da nababbi, di grandi campioni del pallone – del calibro di Cristiano Ronaldo e Karim Benzema - da parte di club semi sconosciuti. La costruzione di nuove megalopoli, grattacieli e centri mega esclusivi. E ancora: investimenti miliardari, in patria e all'estero, dallo sport al turismo, per proiettare un'intera nazione nell'olimpo delle grandi potenze del futuro. C'è un filo rosso sempre più visibile che collega queste e altre vicende, separate soltanto in maniera apparente. Il minimo comun denominatore si chiama Arabia Saudita. Già, perché nell'ottobre del 2021, l'80% del Newcastle, club inglese che milita in Premier League, è finito nelle mani del Fondo per gli investimenti pubblici (PIF) saudita. Stiamo parlando, in sostanza, dello stesso attore che ha annunciato l'acquisto di quattro club calcistici locali (Al Ahli, Al Ittihad, Al Hilal e Al Nassr), riempiendoli di stelle; che ha lanciato LIV Golf, un nuovo torneo che ha sconvolto gli organizzatori dei tradizionali PGA Tour e DP World Tour; e che sta contribuendo, a son di spese folli, alla realizzazione del piano governativo Vision 2030, costruendo città in mezzo al deserto e lucidando l'immagine di Riyad. Per capire dove ha intenzione di andare l'Arabia Saudita bisogna dunque guardare al suddetto piano Vision 2030 e a chi lo ha lanciato nel 2016: Mohammad bin Salman Al Sa'ud, figlio dell’attuale re saudita Salman, principe ereditario nonché vice primo ministro della Difesa del Paese.
Il nuovo volto di Riyad
Dimenticatevi la vecchia Arabia Saudita. Quella legata al pericolo terrorismo, a Osama bin Laden e al wahhbismo, versione eterodossa dell'islam, dotato di caratteristiche ultraconservatrici e formaliste nell'applicazione del dettato coranico, e credo dominante della nazione saudita. Dimenticatevi anche lo scatolone di sabbia, tutto deserto e polvere, chiuso da una cultura impermeabile o quasi. E dimenticatevi pure l'idea della terra del petrolio e fulcro dell'Opec, l'Organizzazione dei Paesi esportatori di petrolio, fondata nel 1960, per negoziare con le compagnie petrolifere aspetti riguardanti alla produzione dell'oro nero, dei suoi prezzi e concessioni. Oggi Riyad vuole voltare pagina, rifarsi un'immagine moderna partendo da zero e, al tempo stesso, plasmare l'opinione pubblica moderna con massicce dosi di soft power. L'Arabia Saudita intende sostituire il primato nei settori dei servizi pubblici - come sanità, istruzione, infrastrutture, tempo libero e turismo - alla leadership musulmana cercata con insistenza fino agli anni Duemila; i tour di internazionali in megalopoli avveniristiche ai pellegrinaggi religiosi nelle città sacre di La Mecca e Medina; il sogno di diventare un hub finanziario e tecnologico a quello, sempre più utopico, di essere ricordata solo ed esclusivamente per essere uno degli epicentri mondiali dell'islam. Ma Riyad deve anche ripulire il proprio volto da tre gravi macchie, le stesse che continuano ad alimentare la diffidenza dell'Occidente nei suoi confronti: la violazione dei diritti umani, l'assassinio del giornalista Jamal Khashoggi (si ritiene che bin Salman possa essere il mandante) e il radicalismo islamico.
La visione di bin Salman
La ricetta per uscire dall'ombra del passato coincide con una pioggia di denaro riversata da Riyad in qualunque settore in grado di lavare la reputazione pubblica dell'Arabia Saudita e, al contempo, di renderla appetibile agli occhi degli investitori stranieri. Vision 2030 è il percorso tracciato da bin Salman. Si tratta di una specie di esperimento senza precedenti, di una trasformazione economica e sociale di una nazione di 37 milioni di abitanti, il cui esito potrebbe avere profonde implicazioni tanto per l'intero mondo arabo quanto per il resto del pianeta. L'obiettivo principale del suddetto piano è quello di diversificare l'economia, di allontanarla dai combustibili fossili e sfruttando vari settori alternativi: dal turismo alla finanza, dall'intrattenimento al commercio passando attraverso i servizi. La sfida è complessa, visto che la maggior parte della ricchezza dell'Arabia Saudita deriva dalle sue vaste riserve di petrolio (il Paese, del resto, è il principale esportatore di greggio al mondo), e il rischio che queste attività possano restare bloccate è enorme. Sia chiaro: il regno saudita non è il primo Stato petrolifero del Medio Oriente a tentare un radicale allontanamento dagli idrocarburi. Dubai, ad esempio, si è reinventato come centro logistico, destinazione turistica e hub finanziario offshore per compensare il declino delle sue riserve petrolifere. Ecco: bin Salman sogna qualcosa di simile, ma moltiplicato al quadrato. Il meccanismo per far funzionare il processo è già delineato. I profitti miliardari registrati dal gigante petrolifero controllato dallo stato Saudi Aramco mediante la vendita di olio nero (161,1 miliardi di dollari nel 2022), saranno investiti a livello nazionale e globale attraverso il fondo sovrano del regno PIF (una specie di pozzo senza fondo con una potenza di fuoco di circa 600 miliardi di dollari). I petrodollari, dunque, servono, da un lato, per finanziare una lunga lista di megaprogetti per migliorare i trasporti, rivoluzionare lo sviluppo urbano, diversificare il settore energetico e promuovere il turismo. Giusto per fare un esempio, Neom, una città futuristica senza emissioni di carbonio in costruzione sul Mar Rosso, che secondo bin Salman competerà con Miami, incarna l'audacia di questi sforzi. Dall'altro lato, i proventi del petrolio sono invece fondamentali per presentare al mondo la faccia più bella dell'Arabia Saudita: quella che non ha niente a che fare con violazione di diritti e altre storie oscure. Da qui gli investimenti nello sport e l'acquisto di calciatori milionari. L'eventuale organizzazione di Expo 2030 a Riyad potrebbe essere la ciliegina sulla torta che sta preparando bin Salman.