«Io sono un cornuto divorzista, un assassino abortista, un infame traditore della patria con gli obiettori, un drogato, un perverso pasoliniano, un mezzo-ebreo mezzo-fascista, un liberalborghese esibizionista, un nonviolento impotente. Faccio politica sui marciapiedi» . Era così che si definiva Marco Pannella, leader del partito radicale, protagonista eclettico delle più importanti battaglie civili combattute nel nostro paese, da quelle per il divorzio e l’aborto degli anni 60 e 70, fino a quelle per la depenalizzazione delle droghe, contro l’accanimento terapeutico, per l’eutanasia, e in difesa dei diritti dei carcerati. Quattro bypass al cuore e due tumori non gli hanno impedito di cambiare la storia delle nostre vite, usando il suo corpo in sit in, proteste, con scioperi della fame e della sete. Nel 1995 regalò 200 grammi di hashish ad Alda D’Eusanio, in diretta su Rai 2. Per Pannella la disobbedienza civile era metodo e missione, di sicuro godimento. I suoi erano altri tempi, l’Italia non era quella di oggi ma se pensiamo ai radicali, pensiamo ancora a lui. Muore nel 2016 ed è proprio in quel momento che Filippo Blengino si appassiona al metodo radicale. “Nel 2016 ho iniziato ad avvicinarmi alla politica e grazie anche a qualche canale in più, come Radio Radicale, ho approfondito la storia dei radicali”, ci racconta. “Lì mi sono davvero appassionato, sia alle battaglie, ma soprattutto al metodo radicale. È sempre stato un gruppo molto piccolo, mai di massa, ma che su grandi temi è riuscito a incidere fortemente. Soprattutto, da un punto di vista comunicativo, è stato (ed è tuttora) uno dei movimenti più dirompenti e incisivi della storia repubblicana, grazie anche all’uso di strumenti non violenti, come lo sciopero della fame e la disobbedienza civile”. Filippo è nato a Cuneo, una delle tante province italiane in cui si respira bigottismo, nel 2000. Si laurea in Legge a Torino, liberale, garantista di ferro, è stato denunciato numerose volte in seguito ad alcune disobbedienze civili promosse per la legalizzazione della cannabis. Dall’8 dicembre 2024 è il segretario dei Radicali italiani. Qualcuno lo sapeva? Lo abbiamo chiamato.

Ti sei sempre battuto per la legalizzazione della cannabis. Con il decreto sicurezza, fortemente voluto da Matteo Salvini, si va nella direzione opposta, demonizzandone l’uso ricreativo e criminalizzando anche il settore della cannabis light. Sei andato al Vinitaly e hai consegnato ai ministri Lollobrigida e Giuli della cannabis light. Perché proprio lì?
Da una parte abbiamo una fiera importantissima che promuove una sostanza che, comunque, è tra le prime cause di morte nel mondo e legata a molti tumori. Dall'altra, invece, si criminalizza la cannabis light (è consentita la produzione di infiorescenze contenenti Cbd solo se destinate al "florovivaismo professionale", vietandone ogni altro uso, ndr). Ti prendono come se stessi trafficando droga pesante, con scene da film: ti buttano a terra, ti perquisiscono, ti trattano come un delinquente. Il punto è che c’è un problema di analfabetismo scientifico. Quando un ministro dell’agricoltura arriva a dire che anche l’acqua fa male, è la plastica rappresentazione di un problema culturale: una mancanza di conoscenze di base su cosa siano le sostanze, i principi attivi, e su come funzionano. La cannabis light non ha effetti psicoattivi significativi, non crea dipendenza, e non ha nulla a che vedere con le sostanze pericolose. Questo è un mercato che ha tolto risorse alla criminalità. Era un settore che dava lavoro a oltre 20.000 persone, spesso giovani, in contesti difficili. Una filiera controllata, trasparente, che produceva reddito, pagava tasse e offriva sicurezza. Le persone che prima acquistavano cannabis light legalmente, adesso si rivolgeranno agli spacciatori oppure cercheranno di coltivarla da soli. Il vero passaggio alle droghe pesanti spesso non avviene per “colpa della canna”, ma quando entri in contatto con lo spacciatore, che magari ti regala la prima dose di cocaina o psicofarmaci per agganciarti. È chiaro che esiste una volontà ideologica di criminalizzare tutto, di fare una battaglia cieca contro qualsiasi sostanza. In più, non si fa nemmeno distinzione tra cannabis light e altre forme di cannabis. È assurdo. Ed è proprio questo il punto più laico: stanno distruggendo un intero settore che ha solo portato benefici al Paese, sempre in nome della guerra alla droga. I sondaggi dicono da tempo che gli italiani sono sempre più favorevoli alla legalizzazione e anche tra gli elettori di centrodestra ci sono consumatori di cannabis. Il consenso si sta spostando, lentamente ma in modo costante.
In Germania, per esempio, da aprile 2024, è consentito coltivarla per uso personale. Anche la vendita nei club autorizzati è legale, così come la cannabis terapeutica. Diventeremo un paese sempre più conservatore?
Fa impressione, perché l’Italia è stata il primo Paese in Europa a chiudere i manicomi con la legge Basaglia, a legalizzare il divorzio, l’aborto, l’obiezione di coscienza. Abbiamo avuto un momento storico di grande apertura. Ora, invece, sembra che si stiano cancellando una a una le conquiste sociali che avevano fatto bene a questo Paese.
Un'altra grande “battaglia” di Salvini è stata quella contro la guida sotto l’effetto di sostanze. L’hai definita “una coglionata” e lo scorso dicembre dopo due giorni dall’assunzione di cannabis ti sei messo alla guida autodenunciandoti a una pattuglia delle forze dell’ordine. Ora sei iscritto nel registro degli indagati per aver violato l’art. 187 del codice della strada. Peccato che il problema riguardi anche i malati, non solo chi fa uso di cannabis o cbd a scopo ricreativo…
Psichiatri e psicologi hanno lanciato un appello, perché ci sono tanti farmaci legali (psicofarmaci, ansiolitici, antidepressivi) che possono dare falsi positivi nei test antidroga… Molti pazienti ci hanno scritto in queste settimane raccontando di aver interrotto le cure, non solo con la cannabis terapeutica, pur di non perdere la patente, perché senza patente non possono lavorare. La legge Salvini prometteva un tavolo tecnico per affrontare questi nodi, ma non è mai stato creato. Così, chi assume cannabis terapeutica è sanzionato come chi si fa una striscia di cocaina prima di mettersi al volante. Magari poi vince il ricorso in tribunale, ma intanto la patente la perde. Questa deriva proibizionista è il vero cuore della questione. Oggi, da un punto di vista legale, fumare una canna sei giorni prima e guidare ha lo stesso peso che guidare dopo aver assunto cocaina pochi minuti prima. È un’assurdità totale. Confidiamo che la Corte Costituzionale ponga rimedio, ma c'è da dire anche che non è solo questo governo ad aver preso decisioni sbagliate: già con il governo Renzi fu introdotto il reato di omicidio stradale, con un forte aumento delle pene, ma senza alcun effetto concreto sul numero degli incidenti. Questo dimostra che l'approccio repressivo non è la soluzione. Serve cultura, educazione, prevenzione. Anche e soprattutto nelle scuole. Ma ora si è fatto un passo in più: si va a stabilire chi è lucido e chi no, chi è colpevole e chi no, sulla base di presunzioni sballate. E questo è davvero pericoloso.
237 giuristi hanno definito la legge di Salvini incostituzionale e un vero proprio attacco alla democrazia. Tre presidenti emeriti della Consulta (Zagrebelsky, Silvestri e De Siervo) e gli ex vicepresidenti Cheli e Maddalena hanno scritto un appello che ha già superato le 3mila firme.
Mi ha stupito il fatto che il Presidente della Repubblica abbia firmato un decreto di questo tipo. È uno dei decreti più oscuri della storia repubblicana. Introduce 14 nuovi reati e rende aggravanti alcuni comportamenti già sanzionati penalmente. Vengono limitate libertà fondamentali e diritti importanti. Pensiamo, ad esempio, al diritto alla libertà economica, con il blocco di un mercato — quello della cannabis — che genera posti di lavoro e non ha controindicazioni rilevanti per la salute pubblica. Oppure all’eliminazione dell’obbligo di misure alternative alla pena per le madri incinte, alla criminalizzazione della resistenza passiva in carcere, al tema delle armi, altro cavallo di battaglia del centrodestra. E potremmo continuare. Io credo davvero che, da un punto di vista dello stato di diritto, questo sia un atto molto pericoloso. Ma la cosa più grave è il fatto che questo governo riesca a far passare leggi così impattanti attraverso decreti legge, evitando quindi un confronto parlamentare adeguato. Il decreto legge, per definizione, dovrebbe essere utilizzato solo in casi di necessità e urgenza. E francamente mi sfugge quale sia, in questo caso, l’urgenza... se non quella di limitare il dibattito democratico.

A proposito di dibattito democratico, siete stati in piazza per l’Europa il 15 marzo, perché “con Putin a Kyiv non può esserci Europa”. Dite sì al riarmo europeo. I radicali non erano non violenti?
Ci si dimentica spesso che Putin è un dittatore, un sanguinario, e lo è da molti anni. Non solo dal 2014, con l’annessione della Crimea, ma già da prima, con gli omicidi politici e l’eliminazione di giornalisti avvenuti molti anni fa. Le nostre democrazie sono oggi più a rischio. Putin non si fermerà, non si è mai fermato in passato, e non lo farà ora con la sola Ucraina. Per questo è fondamentale garantire la democrazia e la pace anche attraverso la deterrenza. A nessuno piacciono le armi, perlomeno non a me, ma la realtà è che, per proteggere la democrazia, bisogna anche sapersi difendere. Questo significa costruire un esercito europeo comune, che prima o poi spero diventi capace di esercitare una vera forza dissuasiva. In quest’ottica, l’aumento della spesa per la difesa in rapporto al PIL è un passo necessario per la sopravvivenza delle nostre democrazie. Il pacifismo è bellissimo in teoria, ma nella pratica oggi rischia di diventare una forma di resa. Arrendersi significherebbe abbandonare un popolo, quello ucraino, che in questi tre anni ha combattuto anche per difendere i nostri valori, non solo i propri. Mi piace sempre ricordare un momento storico che purtroppo non tutti sembrano aver compreso: Monaco. Quando, in nome della pace, la Gran Bretagna cedette territori alla Germania nazista. Ma quel compromesso non servì a fermare Hitler, anzi. Ecco, oggi arrendersi a certe derive pseudo-pacifiste, che troviamo anche in Italia — in partiti come la Lega, ma anche in alcune correnti del PD — significa, di fatto, fare un favore a Putin. Significa, in sostanza, pensare a “vendere” pezzi di Ucraina ma non si capisce bene in nome di cosa. Perché significherebbe regalare territori e popolazioni a un dittatore che ha deportato migliaia di persone, ucciso bambini, e mostrato al mondo il volto di un sanguinario imperialista. Quel tipo di pacifismo, oggi, è pericoloso. Soprattutto quando diventa capace di orientare l’opinione pubblica e, di conseguenza, le scelte di governo. L’alternativa non può essere semplicemente “mandiamo rami d’ulivo per fermare l’avanzata russa”. La realtà è che dobbiamo armare l’Ucraina per permetterle di difendersi e sperare che non ci sia un’escalation tale da coinvolgere direttamente il suolo europeo. Ma se non agiamo ora, il rischio per la nostra democrazia è altissimo. Anche perché la guerra non è solo sul campo. C’è da anni una guerra di propaganda, anche in Italia, e quella russa è tra le più aggressive e pericolose, soprattutto per la qualità dell’informazione pubblica.
In Europa con con chi vi sentite più in sintonia? Cosa pensi, ad esempio, di Sánchez?
Sui diritti civili sì ma, se parliamo di leadership europea e di geopolitica, direi che il leader a cui ci sentiamo più vicini in questo momento è Macron. Anche se sta perdendo molto consenso e rischia, inevitabilmente, di aprire la strada alla destra, se parliamo di politica estera e difesa comune, la sua è una posizione chiara e netta. Oggi però per noi l’unico faro che rimane in Europa, per quanto indebolito, è la Commissione, quindi Ursula von der Leyen. Con tutti i limiti del caso: quelli della sua maggioranza, del Parlamento Europeo, e soprattutto del fatto che l’UE ha ancora poteri troppo deboli.
In Italia invece non vedete margini di dialogo con altre forze politiche?
Con Più Europa i rapporti ovviamente ci sono. Abbiamo buoni rapporti all’interno del Pd, soprattutto con l’area riformista, in particolare su alcuni temi come il carcere o la giustizia. Anche con Azione c’è stato un dialogo: qualche mese fa abbiamo presentato insieme una proposta di legge sul nucleare. In passato, devo dire, avevamo anche un buon dialogo con alcune forze del centrodestra, in particolare Forza Italia, sempre su giustizia e diritti. Purtroppo, tutto questo si è un po’ perso. Continuiamo comunque a cercare interlocutori sui singoli temi, anche in modo trasversale. Questo, credo, è un nostro punto di forza: essere trasversali su temi concreti. Sarebbe bello riaprire un dialogo anche con alcune forze di governo, come Forza Italia. Ma oggi non vedo una reale volontà politica in quella direzione.
Eumans, con Marco Cappato, e il movimento Volt Italia non potrebbero essere dei buoni “alleati”?
Con Marco Cappato ci sentiamo spesso. Lui ha scelto un percorso diverso, meno tradizionalmente politico, più orientato alla democrazia diretta e ai progetti europei. Le sue iniziative sono lodevoli, e alcune le condivido molto. Altre, invece, un po’ meno, le trovo a volte un po’ troppo utopiche, diciamo. Non lo dico in senso negativo: anche Pannella aveva grandi utopie, ma riusciva a farle camminare con i piedi per terra. Il Partito Radicale Trasnazionale, in questo senso, era un progetto bellissimo. L’idea di creare un soggetto politico che superasse il solo interesse nazionale rimane attuale però servono forza e struttura. Al momento, a mio avviso, Eumans non ha ancora i mezzi per provarci davvero. Forse questo tipo di progetto dovrebbe passare da soggetti politici già strutturati e radicati, come quelli italiani. Con Volt ci si parla, ci si incontra ma il problema è simile. Sono progetti interessanti, condivisibili sulla carta, ma che non riescono a “sfondare” e sbagliano approccio: arrivano alla conclusione senza costruire davvero il percorso. Io continuo a credere che i partiti e la politica parlamentare siano ancora fondamentali e superarli a parole non basta. Le iniziative dei cittadini europei sono utili ma non cambiano il mondo da sole. Servono forza politica, strutture e militanza. Altrimenti, si rischia di restare nell’utopia.
Che prospettiva politica avete per il futuro a livello nazionale? Portate avanti battaglie importanti ma rischiando di rimanere sempre minoranza e non avere mai una rappresentanza in Parlamento
Avere una rappresentanza parlamentare fa la differenza: ti permette di essere più incisivo, di incidere davvero sul piano politico. Detto questo, possano esserci strumenti, anche elettorali, attraverso i quali i Radicali — o singoli radicali — possano candidarsi, magari proprio grazie al lavoro fatto da Radicali Italiani. Però sarebbe ipocrita pensare di eleggere 30 deputati domattina. Non è un momento facile, né sul fronte dei consensi né su quello dell’attivazione delle persone. Però il punto cardine per noi rimane sempre lo stesso: siamo forti quando riusciamo a raccogliere consenso intorno alle singole battaglie. Quindi la nostra prospettiva deve essere quella di individuare strumenti efficaci per portare avanti queste battaglie. E per noi uno degli strumenti principali, anche se a volte sottovalutato, è proprio la disobbedienza civile. È uno strumento potente, soprattutto per chi come noi è fuori dal Parlamento. Serve a scardinare leggi ingiuste attraverso i tribunali, anche ricorrendo alla Corte Costituzionale, quando possibile. È questa la nostra strada: azioni concrete, su singole battaglie, con strumenti efficaci. E davanti ai nuovi reati “di sicurezza” di cui si parla tanto, stiamo proprio ragionando su forme di disobbedienza civile che possano smontarli. Credo che i Radicali siano riconosciuti per la qualità delle proposte e per l’analisi politica, anche da chi non ci vota. La prospettiva, quindi, è evitare la retorica sterile — il “abbiamo fatto”, “abbiamo detto”, “abbiamo lasciato” — e invece continuare a fare, ad agire. L’eredità radicale non si celebra: si onora con nuove battaglie, aggiornate ai tempi, ma con lo stesso spirito di iniziativa.
