Sull’autonomia differenziata, la chiassosa polemica (o dissing, per quelli che non sanno più usare l’italiano) fra Cei e governo Meloni non ha indotto nessuno ad accusare di “ingerenza” la Chiesa nella politica italiana. Non lo ha fatto nemmeno un pasdaran come Mario Sechi, che pure sulla prima pagina di Libero non le ha certo mandate a dire, bollando i vescovi più o meno come megafoni della sinistra. E si capisce: quando, nei primi Duemila, a presiedere la Conferenza Episcopale Italiana era un “conservatore” come Camillo Ruini, l’interventismo su fecondazione assistita e diritti civili fece parecchio comodo, al centrodestra di allora. Quanto alla sinistra, con Bergoglio papa ci manca poco che nelle sedi del Pd e partitini rosaverdi, al posto delle superstiti effigi di Enrico Berlinguer, non si appenda l’icona del pontefice protettore di Luca Casarini e castigatore di anti-migranti, colpevoli di “peccato mortale” (salvo restarci di sasso, poveri compagni, quando Francesco, che fa pur sempre il papa, condanna senza se e senza peccati altrettanto gravi come la maternità surrogata). Guai, insomma, a reagire a muso duro prendendo per il collarino bianco, in Italia, i preti: come da italica tradizione, più che il timor di Dio è la paura della Chiesa e del suo potere, a lasciare l’onere della contestazione frontale giusto a qualche sparuto radicale, o agli atei-agnostici dello Uaar. Non per niente, sempre per citare il direttore di Libero, sul quotidiano più sfegatatamente meloniano la posizione vaticana sugli immigrati è girata come una frittata, sostenendo, non senza ardimento, che Jorge Mario, su questo, parla come il governo (sic!). Perché va bene rintuzzare i vescovoni, ma col papa non esageriamo.
Ma difatti, non vivendo più noi nell’Ottocento e neppure nel Novecento, in generale è corretto non star qui ancora a imputare le gerarchie prelatizie di intromissione nella res publica. E si badi: a prescindere da chi ne sia a capo, un Ruini o, come oggi, un “progressista” come Matteo Maria Zuppi. La critica “spiritualista”, che vorrebbe una Chiesa auto-confinata alla cura delle anime, quasi che queste anime non abbiano un corpo con le loro corpose esigenze, e non siano ospitate da persone che sono anche cittadini, lascia il tempo che trova. Quando l’autore evangelico disse “date a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio”, intendeva ammonire a non far passare quest’ultimo in secondo piano rispetto al primo, non intendeva anticipare il cavouriano “libera Chiesa in libero Stato” (il quale invece, ricordiamolo ai meloniani, diede il crisma ideologico a una vigorosa campagna anti-clericale da parte dell’allora destra risorgimentale). La Chiesa è sempre stata una realtà anzitutto politica, in quanto ramificata nella società e inevitabilmente titolare di interessi materialmente economici. È per questo motivo che quella volta Costantino la scelse per rilegittimare l’Impero, scambiando la Croce per un’arma di distruzione di massa degli avversari (in hoc signo vinces). Non si vede perché, agli occhi di chi è favore del libero pensiero, i preti non debbano avere tutto il diritto di dire la propria su tutto. Anche su materie che in effetti, esaminate alla lettera, poco c’entrano con le verità di fede e la missione pastorale, come l’autonomia caldeggiata dalla Lega. Ma c’è un problema. Se le tonache possono partecipare al dibattito politico come tutti, dovrebbero allora sottostare a condizioni pari a ogni altro ente. E invece, come si sa, nel nostro Paese la Chiesa Cattolica, Apostolica, e soprattutto Romana, gode di una situazione privilegiata. Anziché rapportarsi allo Stato secondo una normale legislazione, per cui dovrebbe essere soggetta a una legge di carattere generale per le confessioni religiose che, guarda caso, latita, a far testo è un regime speciale, “concordatario”. A regolare, infatti, le relazioni fra Repubblica Italiana e monarchia assoluta del Vaticano (e delle diocesi di cui si compone la rete ecclesiale sul territorio) è un Concordato, revisionato nel 1984 in senso più laico, che risale ancora ai Patti Lateranensi stipulati dal fascismo nel 1929. Un’intesa bilaterale scolpita in Costituzione che riconosce tuttora, quindi, uno status particolare ed esclusivo alla Chiesa di Roma. Con tutte le conseguenze del caso. In primis, la gigantesca torta delle agevolazioni fiscali, come l’esenzione dall’Imu dei luoghi di culto e delle sedi annesse, canoniche e conventi inclusi, in quanto non ad uso “commerciale” (definizione sovente disputabile). E poi, l’otto per mille in dichiarazione dei redditi, il cui ben poco egualitario meccanismo prevede che il contribuente possa scegliere di erogarlo allo Stato o, in alternativa, a una rosa di dodici entità confessionali, con i quali intercorre il solito accordo mirato (valdesi, luterani, buddisti ecc, ma non i musulmani, pur numerosi), e fra i quali spicca, naturalmente, la Santa Madre, che si aggiudica la fetta più grande (9 miliardi di euro, il 70% del totale, secondo l’ultimo gettito), perché i soldi di chi lascia in bianco la casellina vengono ripartiti in proporzione alle quote di chi ha barrato la crocetta.
Al che un ingenuo potrebbe pensare: beh, si vede che il cattolicesimo, una certa presa sulla società italiana, bene o male, ancora ce l’ha. Ci permettiamo di dubitarne. Stando solo alle ultime ricerche, come ad esempio quella, recentissima, firmata dal sociologo Ilvo Diamanti su Repubblica (“Morale e politica, la Chiesa sbiadita non guida più gli italiani”, 29 luglio), solo il 15% degli intervistati ritiene l’insegnamento di Bergoglio&C “molto importante”, cifra che crolla al 5% fra chi ha meno di 30 anni. Di contro, aumentano coloro che si dichiarano “indifferenti” (un altro 15%) e quelli che pensano che gli ecclesiastici non dovrebbero interessarsi di valori, sessualità e famiglia (21%). Ma il dato più dirimente, perché non riguarda le opinioni sondaggistiche bensì i fatti nudi e crudi, è che meno del 20% della popolazione si reca normalmente a messa, appuntamento centrale per un fedele. Se togliamo a questa percentuale la parte degli italiani che si limitano ad andare solamente a messa, si evince che il numero di credenti che sono anche praticanti attivi, inseriti nella vita delle parrocchie (fra l’altro sempre più accorpate sotto la gestione di un solo sacerdote, data la penuria di vocazioni) è ancora più basso. Questo panorama di marcato distacco dal sacro pulpito dovrebbe togliere ogni illusione sul peso effettivo della Chiesa sulla quotidianità e sulle scelte di vita più diffuse. Cosa che, lo diciamo in partibus infidelium, potrebbe costituire perfino una buona novella, per un cristiano cattolico genuinamente coinvolto nella sua fede: la qualità risorge, quando la quantità viene meno. Ma lasciando perdere questo aspetto che non ci compete, rimane un dubbio nel dubbio: come mai, allora, questa Chiesa svuotata resta così influente, intoccabile e inattaccabile? Perché è tuttora una potenza, socialmente parlando? Perché resta ubiqua: non c’è città, paese, paesino, borgo e angolo d’Italia dove non si trovi una chiesa, una chiesetta, una congregazione, una comunità, un insediamento religioso. Con la loro relativa, vastissima, ed esentasse ricchezza in immobili. Un patrimonio da capogiro che unisce valore economico-finanziario e capillarità territoriale. Ecco, se per paradosso avessimo, il giorno del mai, un governo che fosse più cristiano della Chiesa di Cristo e seguisse il santo di cui l’attuale papa porta il nome, di tali fondamenta temporali dovrebbero rimanere le spoglie, dopo un sano dimagrimento a norma di legge. Sarebbe sufficiente, cioè, far pagare le tasse sulla rendita immobiliare e abolire quelle incassate obliquamente, e il palco, politico e mediatico, cascherebbe. O se non tutto (ci sono i miliardi e miliardi dagli estesi dominii nel mondo), almeno in parte. Ma mai quanto basterebbe per ridare slancio spirituale a una Chiesa evangelicamente “povera” che mai è esistita, e in realtà mai esisterà.