Il disegno di legge sul femmincidio è passato all’unanimità al Senato ed è un culturicidio. Soppressione controllata e voluta della cultura liberale, del buon senso e anche della logica. La proposta è di iniziativa governativa, che riesce ad accontentare, almeno in parte, i pruriti giustizialisti di una sinistra che non sa contare. Sì, perché, come ci ha spiegato il professore di statistica Vincenzo Mauro, in Italia non esiste nessuna emergenza femminicidi. E per fortuna. La nuova legge prevede l’ergastolo per chiunque uccida una donna “commettendo il fatto con atti di discriminazione o di odio verso la vittima in quanto donna, ovvero qualora il fatto di reato sia volto a reprimere l'esercizio dei diritti, delle libertà ovvero della personalità della donna”. Le critiche di natura giuridica sono talmente banali che in questi mesi quasi tutte le realtà italiane del campo si sono opposte all’introduzione di questa fattispecie di reato. Il primo problema fra tutti è che stiamo parlando di un omicidio, un crimine già punito dalla legge. Forse sarebbe il caso di lottare per far sì che chi commette reati in Italia finisca effettivamente in carcere (carceri strapieni di gente dentro per reati poco gravi).
Ci sarà poi da capire in che modo i giudici potranno effettivamente stabilire quando si sarà di fronte a un omicidio di una donna in quanto donna, “ovvero qualora il fatto di reato sia volto a reprimere l’esercizio dei diritti, delle libertà ovvero della personalità della donna”. Soprattutto considerando che qualsiasi tipo di omicidio è un reato “volto a reprimere l’esercizio dei diritti, delle libertà ovvero della personalità” di un individuo. Questi tentativi di compensazione politica, che mettono d’accordo destra e sinistra (anche se la sinistra aggiungerebbe a questo l’educazione contro la violenza di genere), rappresentano lo stato trogloditico della riflessione civile in Italia. Non si basano su nulla, su nessun principio oggettivo, su nessuno schema logico. Come abbiamo detto, è difficile distinguere un omicidio da un femminicidio. Ma ancora più grave è pensare di introdurre una fattispecie di reato senza avere un’idea chiara di quali siano le cause dietro ai femminicidi.

Mentre i più rumorosi tra intellettuali e movimenti parlano di un all’allarme femminicidio e di patriarcato, non è chiaro in che modo la nostra società possa essere definita davvero patriarcale. Nonostante vi siano ancora molte aree in cui la donna è discriminata, l’Italia non è più una società patriarcale, dove cioè l’ultima parola spetta all’uomo, che può decidere per conto della donna. Non viviamo in una società in cui vige “la legge del padre”, ma solo in una società che progredisce lentamente in molti campi e che in molti campi è invece già progredita: diritto di voto, di proprietà, di lavorare, di studiare, libertà di espressione, di divorziare, di abortire. Possiamo trovare decine di difetti in ogni campo, ma non possiamo negarne l’esistenza. Ora, se la causa specifica del femminicidio non è la cultura patriarcale, la cosiddetta “rape culture” (cultura dello stupro; idea diffusa negli anni Settanta e mai dimostrata sul piano scientifico), cosa causa il femminicidio? E non saperlo non è un buon motivo per evitare di approvare leggi che non poggiano su basi solide?
Facciamo un esempio. Nel linguaggio comune il termine “incel” (anche per colpa della serie Netflix Adolescence) è diventato un modo per intendere chi, prima o poi, sarà violento con una donna. Ovviamente questa non è la definizione del termine, ma l’idea è talmente diffusa che potete sentire parlare indistintamente di manosphere, cultura incel o red pill. Se domani il Parlamento approvasse una legge contro la categoria incel, un po’ come esistono leggi contro i terroristi, perché ormai nel dibattito pubblico questo termine è inteso in senso esclusivamente dispregiativo, in molti potremmo giustamente chiedere lo scioglimento delle due Camere per manifesta incompetenza. In effetti sappiamo che gli incel non sono come i terroristi e che non ha senso prevedere delle leggi specifiche contro un fenomeno di pertinenza psichiatrica.

La legge sul femminicidio funziona allo stesso modo. Non è chiaro cosa sia il femminicidio, nonostante sia chiaro che secondo tutte le possibili definizioni il fenomeno è in calo e/o si sta assestando su un numero di casi minimo (100 casi, al massimo, su oltre 30 milioni di donne). Ma il modo in cui questo termine è entrato nel dibattito pubblico fa sì che tutti si sentano più o meno “competenti” nell’utilizzarlo. Così la politica propone una legge basata su un concetto che non è chiaro quale fenomeno specifico, diverso dal semplice omicidio, descriva. E non vale neanche come possibile aggravante. La maggior parte degli omicidi in Italia è dovuta a futili motivi, come liti e rancori. Eppure non esiste un’aggravante per le liti. Ogni omicidio ha una causa, esistono decine di cause, non esistono fattispecie di reato per ciascuna causa. Non di logica vive la politica, è evidente, ma di calcolo elettorale.
