Tra trend, slogan, grafici, guerre, salari, analisi demografiche e cambiamento climatico, l’informazione non può più fare a meno dei numeri. Il problema? La gente (anche molti giornalisti), soprattutto in Italia, non sa leggerli, non li capisce, ma li usa per fare propaganda o fingere che un’opinione sia un fatto. Un caso su tutti: i femminicidi, di cui si parla ogni volta che una ragazza muore (molto meno quando a morire, come accade il più delle volte, è una donna anziana, perché?). I dati ufficiali, però, smentiscono la retorica dell’emergenza, nonostante qualche associazione abbia gonfiato i numeri (inserendo anche casi di suicidio o di morti per cui non è stata ancora identificata una causa). Questo significa essere antifemministi? Ovviamente no. Se non dovesse bastarvi, però, si possono guardare i trend, e cioè la tendenza di un fenomeno nel tempo, come ha fatto Vincenzo Mauro docente di statistica e analisi dei dati all’Università di Macerata, che sui social fa divulgazione seria e documentata grazie a una pagina social da quasi 50mila follower, 3minuticolprof (e ora in libreria per Longanesi con il suo nuovo libro, I numeri non mentono (quasi) mai). Ma dopo il suo reel su questo argomento, in cui discuteva i report ufficiali del Ministero degli Interni e dell’Istat, ha ricevuto una denuncia all’Agcom ed è stato segnalato al suo ateneo. Davvero non c’è più spazio per il dibattito democratico?
Il tuo reel sui femminicidi ha fatto parecchio rumore, però è diverso rispetto alla maggior parte dei contenuti che sono stati pensati per Instagram in questi mesi da altri creator. Hai puntato, invece che sui numeri assoluti, sul trend. Perché?
Parlare di questo tema, e penso tu lo sappia molto bene, è sempre molto delicato. Rischi di creare una shitstorm di persone che se la prendono con te. In Italia, per nostra fortuna, il tasso di femminicidi è tra i più bassi al mondo. Ma rischi di entrare nel loop del: “Eh vabbè, quindi secondo te sono pochi? Allora non hai empatia per queste povere ragazze morte, queste povere donne morte”. Allora, per evitare questo genere di polemica – pur dicendo che i numeri sono bassi – ho preferito concentrarmi sul trend. I dati non sono sempre certi: la definizione di femminicidio non è univoca e non è semplice classificare ogni singolo caso. Ma il trend in calo era qualcosa su cui erano d’accordo tutte le principali fonti: da Non Una di Meno, che include nei femminicidi anche casi che probabilmente non lo sono, fino agli enti ufficiali come il Ministero dell’Interno, gli Osservatori della Repubblica, del Corriere della Sera. Era un aspetto che poteva mettere d’accordo tutti.
Da un punto di vista statistico, si può parlare di emergenza? Il termine ha un senso, anche se prendessimo per buoni i numeri più alti (quelli di Non una di meno)?
Certamente no. Se c’è un aspetto su cui tutti dovrebbero concordare è che non si può parlare di emergenza. “Emergenza” è una parola che deriva dal verbo “emergere”, quindi dovrebbe indicare qualcosa di nuovo, o comunque in crescita, che sta salendo alla superficie. In questo caso, non è né un fenomeno nuovo né in crescita. Purtroppo, però, “emergenza” è una parola che attecchisce, che fa comodo a molti, nonostante il suo uso in questo contesto sia completamente sbagliato.
Visto che non è un’emergenza (e cioè un fenomeno emergente o in crescita), c’è chi preferisce definirla un fenomeno sistemico o strutturale. Che ne pensi?
Ho l’impressione che “sistemico” sia diventato il termine sostitutivo dopo che “emergenza” è stato smontato. Come se fosse un cambio in corsa: esce “emergenza”, entra “sistemico”. “Sistemico” vuol dire regolare, ricorrente. Ma questo fenomeno, se incrociamo le dita, nel 2024 e soprattutto nel 2025 mostra una decrescita abbastanza marcata. Quindi non ci vedo nulla di sistemico.
Hai parlato anche di figlicidio sui social. Mentre le donne attaccano gli uomini sui femminicidi, in questi casi sono spesso gli uomini ad attaccare, mentre le donne “giustificano” questi crimini accettando cause mediche (come la depressione post partum), cosa che non accade con i crimini contro le donne, che sarebbero colpa del patriarcato (causa culturale). È un bel cortocircuito…
Il commento che ho messo sotto quel post era polemico proprio per questo: ritenevo assurdo che certi maschi tirassero fuori questi eventi tragici per controbattere a chi denuncia la violenza maschile. È assurdo usare eventi di cronaca, ripeto, tragici, come armi in una guerra tra generi. Vorrei che questa brutta deriva finisse. Purtroppo, come dico spesso, questa guerra nasce anche da slogan e trend stupidi di un certo tipo di femminismo: tipo “Meglio l’orso che l’uomo”, oppure “Not all men but always a man”, fino a quelli peggiori come “Un uomo morto non stupra”. Sono slogan divisivi. Così quando c’è un caso opposto, come quello di una madre che butta la figlia dal balcone, viene subito usato come contrattacco. È spaventoso, perché bisognerebbe fermarsi e considerare la tragedia per quello che è, e cioè un singolo caso. La realtà è che l’Italia e il mondo sono da sempre pieni di persone che commettono atti orribili. Ma si guarda il singolo caso, non il quadro generale. La demografia, invece, dovrebbe basarsi su tutti i dati, su tutti i trend, come ho fatto io.
C'è una possibilità, dal punto di vista statistico, che una società possa arrivare ad avere zero femminicidi o figlicidi?
Sappiamo tutti che è impossibile. Quando parliamo di un Paese con sessanta milioni di abitanti, o dell’Europa o del mondo, sappiamo bene che ci saranno sempre eventi di questo tipo. Come i morti per incidenti stradali, sul lavoro, per arresti cardiaci o per tumore. La demografia studia proprio questi fenomeni e sappiamo che non si possono portare a zero. Vorremmo tutti, ma non si può. La strumentalizzazione arriva quando alcuni casi come quelli di femminicidio – che in Italia sono in decrescita – vengono trattati dai media e dai social in modo isterico, gonfiato, distorto. Si crea una psicosi di massa. E chi prova a riportare la narrazione su dati oggettivi viene bollato come patriarcale o antifemminista.
Tu sei antifemminista?
Anche questo mi fa impazzire. Io mi ritengo una persona femminista, però spesso vengo accusato di avere atteggiamenti contrari al movimento. È falso. Nel mio ultimo video riporto i dati e dico chiaramente che la battaglia contro la violenza di genere è importante e va combattuta insieme. Deve essere una priorità. Ma va condotta conoscendo i numeri.
Qual è il rapporto tra attivismo politico, social e numeri?
Purtroppo è un rapporto molto complicato. Il dibattito pubblico funziona con messaggi semplici. Ti faccio un esempio: se domani (speriamo di no) succedesse un caso eclatante come quello di Giulia Cecchettin, dopodomani sarebbe impossibile riportare i dati come ho fatto io. Perché verrei aggredito. Noi sappiamo già ora che nel 2025, pur essendo un anno che mostra un calo, ci saranno altri casi. Ma il clima è talmente avvelenato che non consente un dialogo equilibrato. E senza equilibrio, non c’è dialogo costruttivo.
Tu sei anche un docente universitario. Nel mondo accademico senti lo stesso clima ostile che si trova sui social?
Alzando il livello della discussione diventa più difficile essere contraddetti. Se fossimo in un confronto con paper scientifici, mi sentirei più tranquillo nel portare dati, perché saprei di essere compreso. Portarli sui social è invece un rischio. Io ho il coraggio di farlo, ma sapevo che anche riportando dati ufficiali del Ministero dell’Interno o dell’Istat sarei stato attaccato. E infatti ho ricevuto una denuncia all’Agcom e sono stato segnalato alla mia università. Ti viene voglia di smettere di divulgare.
Parliamo del tuo nuovo libro, I numeri non ingannano (quasi) mai, in uscita per Longanesi. Secondo te, quanto siamo asini in matematica noi italiani?
Tantissimo. Il 30% degli italiani ha problemi di analfabetismo funzionale. E se parliamo di analfabetismo numerico, forse è anche peggio. Senza una cultura scientifica, diventa difficile prendere decisioni. Non c’è libertà senza conoscenza. Se non conosci i numeri, non puoi farti un’opinione. Quando parlo dei miei numeri, dico sempre che sono utili anche a chi vuole rimanere convinto che il femminicidio sia un’emergenza. Non puoi avere un’opinione, né a favore né contro, se non hai una conoscenza completa. E in Italia, purtroppo, questa conoscenza è spesso impossibile da ottenere. È un Paese matematicamente molto, molto arretrato.
Secondo te, qual è la cosa che dà più fastidio della matematica?
Che i numeri, se analizzati seriamente, non si piegano alle opinioni. Dovrebbero essere le opinioni a piegarsi ai dati. Ma in un mondo dove le opinioni sono granitiche, il dato deve piegarsi. È una distorsione, un’aberrazione. Tante persone mi dicono: “Non è una questione di numeri”. Ma allora perché dite “un femminicidio ogni tre giorni”? I dati danno fastidio perché non sempre confermano quello che vogliamo credere. E con l’analfabetismo che c’è, è ancora più facile distorcerli.
Dimmi tre temi, oltre ai femminicidi, che affronteremmo in modo diverso conoscendo un po’ di statistica.
L’immigrazione sicuramente. Poi tutto ciò che riguarda le aliquote fiscali. Con la riforma Meloni, ad esempio, non si è capito bene chi ci guadagna e chi ci rimette. Ci sono tanti trucchetti per mostrare la frittata dal lato che preferisci. Conoscere la statistica ti permette di avere un’idea autonoma. E avere pensiero critico è la prima arma contro le dittature, contro l’oppressione, contro le bugie. Il terzo tema è, per esempio, quello del gender pay gap.
Visto che l’hai citato, parliamone. Conoscere la statistica aiuterebbe a leggerlo in modo diverso?
Dipende da che dati si guardano. È un fenomeno molto sfaccettato, di difficile interpretazione. Non voglio mettermi a dare risposte su un tema che non è il mio. Certamente, però, è un fenomeno complesso che va analizzato con cura. Ci sono variabili di confondimento che possono ribaltare completamente una situazione. È un tema su cui serve cautela. Non basta dire “le donne guadagnano in media meno”. Dietro ci sono mille fattori che di solito rientrano e sono più chiari se inseriti in una analisi statistica.
Immagino che lo stesso valga per l’immigrazione.
Esatto. Se ci pensi è molto triste che i governi usino questi temi come armi.
La contraddizione tra il dire “i numeri non sono tutto”, per esempio nel caso dei femminicidi, e poi però proporre dei numeri è evidente. In realtà, però, i numeri oggi sono diventati l’elemento dominante nel racconto della realtà. Penso solo alle guerre in Medio Oriente e in Ucraina, agli sbarchi, ai femminicidi, ai salari, ai vaccini. Insomma, i numeri sono una nuova religione del consenso?
Sì, questo accade perché si cerca di dare credibilità alle argomentazioni, come se il numero fosse un atto di fede: “Il numero c’è, quindi ci devi credere”. Ora, io credo che partire da un’analisi seria dei dati dovrebbe essere obbligatorio. Sicuramente rispetto a qualche anno fa oggi qualcosa è cambiato e chi parla sente il bisogno di supportare quello che dice con dei dati. Questo è positivo. Quello che però manca è il passaggio successivo: avere dati seri, obiettivi, imparziali. Spesso i dati che si usano per sostenere una tesi o l’altra non valgono nulla, né come fonti, né come analisi, né come interpretazione. Mancano rigore e metodo. E questo è il vero problema. Potrei dirti che io vivo la matematica come una “religione dei dati”, ma solo se i dati sono fatti bene. È il mio lavoro, per me certi standard sono scontati. Ma vedo bene che il 95% di quello che circola non è serio. Soprattutto sui social. E sai cosa? Forse, se il messaggio deve arrivare distorto, superficiale, approssimativo, allora è meglio che resti una semplice opinione, senza il supporto dei dati. Almeno è meno pericoloso.
