Cj, questo il soprannome. Apre una pagina, Homosapiens, che sostanzialmente fa debunking di tante notizie che si trovano sui giornali e sui social a proposito di violenza di genere. Per esempio? La presunta emergenza femminicidi che, per fortuna, non esiste. Attenzione, non è roba di incel, manosphera e virilità da caserma militare, come vi hanno detto di dire quando qualcuno non la pensa come voi. Questo è quello che troverete scritto nella bio della pagina: “Il punto di vista omosessuale su tematiche sociali e femminismo. Contro il politicamente corretto e i luoghi comuni”. D’altronde potrebbe far paura quell’homo, in “Homosapiens”, che suona così simile a uomo. Paura perché, come disse Valeria Fonte a Vanity Fair, “tutti gli uomini pensano come pensa un femminicida”. E invece no, ma per capirlo serve mettere da parte: uno, l’ideologia; e due, la disinformazione. Per questo, a partire dai casi di Sara Campanella e Ilaria Sula, abbiamo intervistato Cj, che in questi giorni sta raccogliendo e riportando tutto l’odio online contro chiunque abbia tentato di affrontare il tema dei femminicidi al di là degli slogan. Sì, questa intervista farà arrabbiare qualcuno, qualche gruppo, qualche attivista, perché va in una direzione diversa da quella che viene urlata, ormai in automatico, nelle piazze. Ma qui non ci sono potenziali assassini di donne, complici, o gym bro machisti. È la premessa da fare, visto il clima di odio, prima di leggere tutto quello di cui abbiamo parlato.

Da quanto tempo ti occupi di “debunking” su questi temi?
Da diversi anni ho iniziato ad approfondire il tema della comunicazione social su tematiche come questioni di genere e femminismo. Ho notato una sempre crescente incongruenza tra i dati effettivi sui fenomeni legati a questi argomenti e la comunicazione che invece viene fatta dai media. Da un anno a questa parte ho deciso di lanciare il progetto Homosapiens con il quale analizziamo quotidianamente le notizie riportate non solo dalle grandi testate giornalistiche ma anche da tutte le piccole pagine di informazione, per avere una visuale completa del fenomeno.
Come sono stati raccontati i due omicidi di Sara Campanella e Ilaria Sula?
Abbiamo assistito a due crimini terribili che non vanno assolutamente trattati con superficialità. Purtroppo però le grandi testate giornalistiche si sono ormai da tempo sottomesse alle dinamiche tossiche dell’algoritmo social: una notizia per essere valida deve suscitare scalpore, indignazione, morboso ed ossessivo interesse. Questi due casi sono stati ovviamente strumentalizzati e raccontati in maniera fuorviante, stimolando l’interesse del pubblico alla conoscenza di ogni minimo dettaglio, anche quello più inutile. Per farvi un esempio, una delle più grandi pagine d’informazione italiana ha pubblicato l’intervista fatta allo zio di uno dei criminali. Ci stiamo ancora chiedendo come l’intervista allo zio del carnefice, che nulla ha a che fare con l’accaduto, possa avere una rilevanza giornalistica. O ancora ci chiediamo se condividere pubblicamente le note vocali di una delle vittime non possa essere considerato vero e proprio sciacallaggio mediatico che cerca di trasformare in spettacolo anche elementi che dovrebbero rimanere sconosciuti al grande pubblico. A questo si aggiunge il problema della strumentalizzazione di episodi come questi per fomentare una vera e propria psicosi collettiva sulla tematica della violenza di genere. Per quanto riguarda i femminicidi, pur avendo in Italia dei numeri stabili negli anni ed estremamente bassi in confronto ad altri paesi europei, ci troviamo in balia di un giornalismo che cerca di dipingere questa come un’emergenza senza precedenti. Una comunicazione che trova terreno fertile sui social dove numeri imprecisi e slogan accattivanti trasformano questo tema nell’argomento perfetto. I dati fortunatamente dimostrano altro. Questo passaggio non vuole sminuire il gravissimo problema della violenza, ma vuole invece incentivare una discussione precisa e veritiera, che basa la sua forza sui dati effettivi e non sul trasporto emotivo che queste tematiche inevitabilmente generano.
In uno dei tuoi primi post sul tema hai parlato di un altro caso, uguale e contrario, di una ragazza condannata a ventidue anni per aver ucciso il fidanzato dopo una lite. Cosa volevi dimostrare?
Con quel post abbiamo voluto attirare l’attenzione sul problema della copertura mediatica dei casi di violenza. Molto spesso le notizie di cronaca che vedono gli uomini come vittime di un determinato crimine vengono riportate solo dalle testate giornalistiche locali e non riescono a raggiungere la copertura mediatica di quelle nazionali. Questo porta il pubblico a sottovalutare la violenza verso gli uomini arrivando addirittura a pensare che non esista. Nei giorni scorsi infatti più volte ci siamo ritrovati a dover leggere post e articoli che parlavano della violenza come semplice prerogativa maschile.
Parliamo di dati. Quanti femminicidi e quanti maschicidi in Italia?
Rispondere a questa domanda è impossibile. Bisognerebbe prima di tutto avere ben chiaro il significato dei termini “Femminicidio” e Maschicidio”. Ad oggi abbiamo a disposizione solo definizioni fumose e poco chiare che non permettono di creare degli elenchi precisi. Questo dovrebbe farci interrogare sulla reale utilità di utilizzare questi due termini.
Non c’è una differenza tra femminicidi e i casi in cui le vittime sono uomini? Dicono: il femminicidio è l’uccisione di una donna in quanto donna.
La definizione che vede il femminicidio come “uccisione di una donna in quanto donna” non ha senso. Questo presupporrebbe infatti un odio da parte del carnefice verso tutte le donne e non verso quella vittima in particolare. Negli ultimi due anni nessuna donna ha perso la vita semplicemente perché apparteneva al genere femminile. Tra le tantissime definizioni che vengono date di femminicidio, quella più valida è la definizione creata dall’Accademia della Crusca e riportata nei documenti del Senato che vede il femminicidio come l’uccisione di una donna da parte del proprio partner, ex partner, padre, o qualsiasi altro uomo, in seguito al mancato assoggettamento fisico o psicologico della vittima. Questa definizione può avere un senso dato che vede il crimine come il gesto estremo di un uomo che non riuscendo a dominare la libertà di una donna decide di porre fine alla sua vita. Inutile ribadire che questa stessa dinamica può essere ritrovata in omicidi di uomini da parte di donne, seppure ovviamente con numeri diversi. Sulle ragioni di tale differenza numerica possiamo disquisire a lungo. Possiamo riassumere la questione in un diverso approccio che i due generi hanno verso la violenza. Mentre per gli uomini la violenza ha per lo più una dinamica fisica, nelle donne invece spesso si declina in una violenza verbale o psicologica, supportata da mezzi come false accuse o stalking.
A proposito di dati. Ancora una volta, dopo i casi Sula e Campanella, si è parlato della mancanza di dati ufficiali seri, come hai spiegato anche tu. Sempre più testate si basano invece sulle statistiche di Non una di meno. Ma tu le hai smontate. Come?
È impossibile avere dei dati ufficiali. Spesso le motivazioni alla base degli omicidi non sono chiare ed è quindi difficilissimo affermare con certezza il movente del crimine, requisito fondamentale per accertarsi che si tratti di femminicidio o no. Le indagini spesso si protraggono per mesi o anni e risalire alle sentenze non è sempre semplice. Questo problema viene strumentalizzato dalle testate giornalistiche che riportano infatti dei dati molto più alti rispetto a quelli reali. Nel 2023, abbiamo controllato uno per uno tutti i nominativi riportati nell’elenco di femminicidi creato da La Stampa, scoprendo che in questo elenco erano stati inseriti anche donne uccise da altre donne oppure donne uccise per motivi che non hanno nulla a che vedere con il genere di appartenenza. Per il 2024, abbiamo invece controllato i nominativi contenuti all’interno dell’elenco stilato da Repubblica. Abbiamo scoperto che su 83 nominativi riportati meno della metà possono essere considerati propriamente femminicidi. L’associazione Non una di meno inserisce in questi elenchi addirittura i nomi delle vittime di suicidio o i casi sui quali le forze dell’ordine stanno ancora indagando. Penso quindi sia un insulto all’intelligenza dover spiegare il perché questi dati non sono assolutamente validi da prendere in considerazione. Il fatto che questo elenco venga considerato come attendibile dalle testate giornalistiche la dice lunga sullo stato del giornalismo italiano.
Secondo te perché c’è questa tendenza a concentrarsi sui femminicidi, spesso dando per scontati numeri e analisi?
Perché le testate giornalistiche e le pagine di informazione ne approfittano per creare contenuti sensazionalistici. Vengono riportate espressioni come “una ogni tre giorni” (nata come “una ogni giorno” e poi modificata nel tempo per via dei continui debunking sul tema) piuttosto che formule più precise che darebbero invece l’idea della giusta dimensione del fenomeno. Secondo i nostri controlli fatti sui nominativi riportati come femminicidi dalle grandi testate giornalistiche, i casi sono meno di 40 ogni anno su una popolazione italiana di 60 milioni di persone (30 milioni se vogliamo considerare solo il genere femminile). Come potete vedere però riportare i dati in questo modo non genera scalpore o senso di allarme. Ecco perché le testate giornalistiche preferiscono un linguaggio basato su slogan e frasi fatte che è facilmente comprensibile per il grande pubblico. Un pubblico che assimila questi costrutti comunicativi e li reinveste in contenuti personali.
Esistono associazioni come Non una di meno o altre che si occupano però più seriamente della questione?
È quello che ci chiediamo quotidianamente.
Credi che gli omicidi di partner o ex partner uomini (o uomini che hanno rifiutato la donna) vengano considerati meno perché sono ancora un tabù? Della serie: gli uomini non si fanno picchiare/ammazzare dalle donne.
Quando si è davanti a crimini commessi da donne nei confronti degli uomini si cerca di trovare una giustificazione all’accaduto. Questo è un processo estremamente comune soprattutto sui social: basta andare nella sezione commenti di qualsiasi notizia di violenza fatta da una donna per trovare centinaia di commenti che si interrogano su cosa ha spinto la criminale a compiere quel gesto. “Chissà cosa stava passando” è una formula purtroppo estremamente utilizzata. Questo è un processo pericolosissimo che porta alla deresponsabilizzazione delle donne che compiono dei crimini: se una donna ha compiuto quel gesto, lo fa per un motivo. Ovviamente questo processo logico non viene attuato quando a compiere il gesto è un uomo. Questo, unito alla mancanza di copertura mediatica fatta dalle testate giornalistiche sui casi di violenza verso gli uomini, porta il pubblico ad avere una percezione distorta di questi episodi. Vengono visti come episodi rarissimi e meno gravi rispetto a quelli della controparte.
Il ministro Nordio ha detto che alcune etnie hanno meno sensibilità nei confronti della donna e lo hanno massacrato. Tu che ne pensi?
Sicuramente siamo a contatto con culture che hanno un’idea molto diversa dalla nostra per quanto riguarda i rapporti tra i generi. Alcune culture vedono la donna come un essere sottomesso al genere maschile, un concetto che non può trovare spazio nella nostra società che si fonda invece sulla parità dei diritti. Io personalmente non riesco ad accettare nessun tipo di cultura che vede la donna come sottomessa all’uomo o come cittadino di seconda categoria.
E dell’ergastolo per i femminicidi voluto dalla ministra Roccella?
Il nostro paese si basa su una costituzione che fonda la sua essenza sulla parità dei diritti. Decreti come quello proposto minano alle fondamenta questo concetto, arrivando a punire un reato verso le donne in modo più severo rispetto a quello verso gli uomini. Si tratta di un decreto inutile dato che le persone che si macchiano del crimine di omicidio già vengono punite con l’ergastolo. Questa è la prova del fatto che il decreto vuole risolvere un problema che non esiste nella realtà: si tratta di una semplice mossa di marketing attuata da un governo che probabilmente, in questo preciso momento, necessitava di questo. È singolare vedere infatti come il governo strumentalizzi tematiche così delicate creando dei problemi di pura fantasia. Ed è anche importante notare come tantissime persone non si rendano conto di questo arrivando a supportare una legge che porterebbe una vera e propria discriminazione a livello giuridico. Un movimento che, pur di risolvere delle discriminazioni di fantasia, crea delle discriminazioni reali. Fortunatamente tantissimi professionisti che si occupano di giurisprudenza hanno dimostrato pubblicamente la loro perplessità su questa tematica.
Yasmina Pani, linguista e divulgatrice, è stata censurata (in America direbbero “canceled”) dalla Fondazione Feltrinelli per un video in cui criticava alcune derive del transfemminismo. Il motivo: le transfemministe si sono incazzate. Spesso le attiviste dicono che la rabbia è legittima ed è causata dalla morte delle loro sorelle. Ma anche Yasmina Pani è una sorella, donna (per altro di sinistra). Questa nuova politica della rabbia come la spieghi?
Quello che è successa a Yasmina è di una gravità enorme. È ironico osservare come vengono attuati processi di censura da persone che vedono il fascismo ovunque tranne che nelle loro stesse azioni. Il movimento transfemminista basa la sua retorica su slogan e concetti che non possono essere messi in discussione da nessuno. Qualsiasi persona che cerchi anche solo di interrogarsi sulla validità di un concetto deve assolutamente essere messa a tacere. Un processo che per assurdo viene fatto anche contro le donne o contro le persone appartenenti alla comunità lgbt che osano criticare le derive del movimento. Questo la dice lunga sulle reali intenzioni di un movimento che non cerca il confronto ma che al contrario punisce con un bavaglio tutte le persone che osano criticarlo. Tutto questo, non potendo essere giustificato in maniera logica, viene ricondotto ad un concetto illogico di rabbia. Ovviamente si tratta di un processo di deresponsabilizzazione che non ha appunto nessun senso a livello di logica.
Ti devo fare una domanda che verrebbe comunque in mente a chi vuole criticarti. Tu sei un uomo, forse stai solo facendo negazionismo perché anche tu sei “figlio sano del patriarcato”?
Prima di essere un uomo sono una persona e quello che dico dipende dalle mie idee non dal mio genere. Siamo stanchi di movimenti che vogliono renderci schiavi delle etichette che loro impongono su di noi. Per questi movimenti è essenziale suddividere le persone in gruppi antagonisti, in questo modo possono fomentare una lotta tra sessi che giustifica il loro odio. Secondo questa idea Loro sono le vittime e tutti gli altri sono i carnefici: una visione distorta e delirante della realtà che non tiene conto ovviamente delle infinite varianti e che soprattutto cancella la responsabilità individuale delle persone. Se un uomo uccide la colpa è degli uomini. Se una donna è vittima tutte le donne sono vittime. Ovviamente questo processo logico non viene applicato al contrario: se una donna uccide la responsabilità e ovviamente solo sua.
