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La Rai e la strana scelta
dei freelance in Ucraina, Toni Capuozzo:
“Possono reggere fino a un certo punto,
poi diventano quasi dei missionari”

  • di Lorenzo Longhi Lorenzo Longhi

17 marzo 2022

La Rai e la strana scelta dei freelance in Ucraina, Toni Capuozzo: “Possono reggere fino a un certo punto, poi diventano quasi dei missionari”
Non è passata inosservata la scelta del servizio pubblico di affidarsi a giornalisti freelance – e non a quelli assunti dalla Rai – per il racconto della guerra in Ucraina. Tanto che il sindacato Usigrai ha inviato all’azienda dieci domande sul loro utilizzo, sulla sicurezza e sull’assenza di un corrispondente da Mosca. Le risposte non sono arrivate, così noi abbiamo girato la questione a un grande inviato come Toni Capuozzo, che per trent’anni ci ha raccontato dal vivo alcuni dei più sanguinosi conflitti nel mondo. Per lui ormai è in corso una informazione “in modalità Grande Fratello” anche per i conflitti, dove i giornalisti “sono soffocati dalla miseria del mercato” e, in assenza di coperture assicurative, arrivano a “diventare quasi dei missionari”

di Lorenzo Longhi Lorenzo Longhi

La guerra e chi la racconta sul posto. Dove risuonano le sirene, dove esplodono le bombe, dove gli obiettivi delle telecamere sono tarati sui toni del grigio delle macerie e del verde-marrone dei militari, dove i civili vivono sospesi, come appunto anche i giornalisti di guerra inviati in loco. Ecco, “inviati”, un participio passato che nel giornalismo identifica anche un ruolo, anch’esso, sempre più parte del passato. La polemica nasce recentemente in seno alla Rai e alla scelta di utilizzare freelance nelle zone più critiche del conflitto in Ucraina, un metodo che negli ultimi giorni è stato notato da più parti e ha suggerito al sindacato Usigrai di chiamare in causa i vertici aziendali chiedendo risposta a dieci domande sulla gestione di chi è in loco. Freelance, appunto, spesso senza tutele: Toni Capuozzo, giornalista e inviato di guerra, sa esattamente cosa significa trovarsi sul luogo di un conflitto, “e qui non posso non notare un aspetto: nella televisione italiana la guerra deborda nei contenitori mattutini, pomeridiani e serali, invade tutto il palinsesto e questo cambia anche il lavoro di chi si trova sul campo, impegnato più nel doversi districare tra un collegamento e un altro che nel fare il suo mestiere”.

Quello, appunto, dell’inviato.

Quello di andare a raccontare sul posto i conflitti è un lavoro che non si fa senza passione, e nei tanti freelance in Ucraina vedo una passione fortissima, sicuramente irragionevole se pensiamo al tornaconto economico, ma anche al fatto che sono inermi sotto l’aspetto assicurativo e pure rispetto al sostegno giornalistico redazionale. Per dire: ricordo che in una delle mie esperienze sul campo, un giorno, scoppiò una granata in un dormitorio dove erano presenti militari italiani. Io ero a distanza, non avevo e non potevo avere sentito il rumore, mi avvertirono dalla redazione perché era uscita un’agenzia e mi precipitai a verificare. Non credo che un appoggio come questo oggi sia garantito. E in Italia il mestiere del freelance è quanto di più ingrato possa esserci. A loro e a tutti gli inviati che restano va tutta la mia solidarietà. I freelance senza tesserino dell’Ordine che vanno a raccontare le guerre sono più giornalisti loro rispetto a gran parte dei colleghi più tutelati.

Si tratta di un vizio solo italiano?

Non solo, ma per come vedo io altri spazi informativi è in effetti molto italiano: titoli, breaking news, live e così via. Noto ad esempio che, nei programmi e nei notiziari che alla guerra vengono dedicati dai media francesi, c’è maggiore spazio per le storie. Qui da noi si fa il live, poi se ne discute in una logica binaria, o con o contro, in modalità Grande Fratello, come se fosse una nomination, in tv come sui social o nel dibattito politico.

Sul terreno di conflitto si è tutti uguali. Ma formalmente e burocraticamente non è così: esistono gli inviati ed esistono i freelance.

Quello che si vede oggi è figlio di un processo lungo che ha visto scomparire la figura dell’inviato, principalmente per questione di costi. Per paradosso, ora si possono inviare immagini e corrispondenze anche solo grazie al telefonino, senza più bisogno ad esempio del satellite, eppure sono i costi assicurativi a pesare di più. Ho coperto guerre da dipendente, e i costi in questo senso anni fa erano molto più bassi. Da questo punto di vista le redazioni sono riluttanti, perché è molto costoso ed è impegnativo anche dal punto di vista morale inviare i giornalisti e allora preferiscono appaltare il lavoro sporco ai freelance.

Utili sì, ma a proprio rischio e pericolo.

I freelance sono soffocati dalla miseria del mercato giornalistico. Se un ragazzo avesse impegnato i propri risparmi e la propria devozione professionale nel raccontare la guerra dello Yemen sul posto, nessuno purtroppo avrebbe comprato i suoi pezzi. I freelance possono reggere fino a un certo punto, poi diventano quasi dei missionari. Questo è un meccanismo perverso: ci sono coraggiosi e bravi freelance per i quali è andare sul campo è occasione di rivincita su tempi magrissimi, ma nelle logiche di questo giornalismo sappiamo bene che sino a tre mesi fa, se qualcuno avesse proposto un servizio sui rischi di una guerra in Ucraina, non sarebbe stato probabilmente capace di venderlo a nessuno.

La desuetudine a mandare inviati come influisce sul racconto di un conflitto?

Avendo tagliato l’informazione dai luoghi di guerra ormai sono pochissimi i giornalisti che hanno esperienza di questo tipo. L’esperienza uno può farsela solo con il lavoro e il tempo: capire se è un posto è sicuro o meno, sapere cosa fare e dove andare, come comportarsi, dalle scelte più impegnative ai dettagli che possono apparire stupidaggini ma possono salvarti la vita. A me ad esempio è rimasta l’abitudine, quando sono ai piani alti di un albergo, di contare e imparare a occhi chiusi la direzione e i metri che mi separano dalle scale: dovesse scoppiare una granata, esserci del fumo, bisogna fare tutto al buio. Conosco colleghi che tenevano una corda in camera per calarsi nel caso di incendi o esplosioni. Sono esempi banali, ma spiegano che raccontare una guerra richiede di vivere una miriade di piccole o grandi brutte esperienze.

Ma a volte nemmeno l’esperienza salva la vita.

Penso al povero Pierre Zakrzewski, il cameraman ucciso in Ucraina e che lavorava per Fox tv, lui aveva una grossa esperienza, ma appunto questa non dà garanzia di protezione. Può servire a mantenere la calma, a diffidare da propaganda di guerra.

Cosa spinge un freelance ad andare sul luogo della guerra?

Quello di andare a raccontare sul posto i conflitti è un lavoro che non si fa senza passione, e nei tanti freelance in Ucraina vedo una passione fortissima, sicuramente irragionevole se pensiamo al tornaconto economico, ma anche al fatto che sono inermi sotto l’aspetto assicurativo e pure rispetto al sostegno giornalistico redazionale. Per dire: ricordo che in una delle mie esperienze sul campo, un giorno, scoppiò una granata in un dormitorio dove erano presenti militari italiani. Io ero a distanza, non avevo e non potevo avere sentito il rumore, mi avvertirono dalla redazione perché era uscita un’agenzia e mi precipitai a verificare. Non credo che un appoggio come questo oggi sia garantito. E in Italia il mestiere del freelance è quanto di più ingrato possa esserci. A loro e a tutti gli inviati che restano va tutta la mia solidarietà, ci sono freelance senza tesserino dell’Ordine che vanno a raccontare le guerre sono più giornalisti di gran parte dei colleghi più tutelati.

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— Tg1 (@Tg1Rai) March 14, 2022

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