La tragedia di Aurora Tila avrebbe dovuto risuonare come un’enorme sveglia per questo indistinto “mondo adulto” che si dispera ma poi cosa fa? Ci si è augurati, in fondo, che quella morte insensata – complice “il particolare contesto del presunto colpevole”, complici “le minori età” dei protagonisti – fosse una sorta di “errore di sistema”, una sorta di tragico bug nel sistema operativo della società civile. Troppo crudele prendere atto che una ragazzina – poco più che bambina, nemmeno quattordicenne – fosse stata uccisa come neppure una donna adulta, ovviamente, mai dovrebbe essere uccisa? Troppo indigesta l’idea che dei ragazzini agiscano in modo definitivo, come ispirati dalle più aberranti distorsioni delle relazioni adulte? Forse sì, tutto troppo crudele, indigesto, ingiusto, ma con Martina Carbonaro eccoci a osservare, di nuovo sgomenti, un copione noto. Dove il femminicidio non è l’unica questione in gioco. E se nel caso della povera ragazzina piacentina le analisi sono state poche, la tragica morte di Martina Carbonaro ci sta forse obbligando a contemplare seriamente una nuova “tendenza” della violenza. Quella dei giovanissimi sui giovanissimi, dei minori sui minori. L’età delle vittime che si abbassa velocemente come un soffitto che scende, letale, sulla testa di una società ossessivamente performante in cui desiderio, possesso e capriccio creano corto circuiti senza ritorno. E gli adolescenti? Apprendono, bene e alla svelta, da una pletora di modelli sgangherati che fungono ora da ispirazione, ora da sostegno. Ce ne preoccupiamo, di questa maladolescenza, se ci scappa il morto, ma sono tante le situazioni difficili e critiche dove – grazie al cielo o a qualche adulto finalmente lungimirante – il morto non ci scappa. Cosa potrà mai combinare un figlio maschio che, in casa, vede un padre mascherato da boss (o viceversa) e una madre mascherata da bambola (o viceversa)? Prende appunti per diventare un lindo, griffato e ben pettinato bulletto alfa, che oggi pare essere la condizione ideale per affrontare adeguatamente – da vincenti – la realtà che c’è “là fuori”, quella raccontata con dovizia di particolari e generoso esibizionismo dalla trap e attraverso tanti profili social totalmente autoreferenziali. Il maschio, in controllo ma profondamente fragile, dispone della sua “bitch”. E le bitch? Molto spesso sono felici di essere etichettate come tali. Sostenute ora da suggestioni acquisite dalla cultura mafiosa (“sono la pupa del malandrino”), ora dalle vacue sirene targate OnlyFans (ciascuno ha un prezzo, questo il messaggio. Emancipante? Non sembrerebbe, vero?). Fate un giro fuori da una qualsiasi scuola media e ascoltate quante dodicenni (o più giovani ancora) chiamano “t*oia” altre dodicenni. T*oie. A dodici anni. Ma davvero? Siamo sicuri che quel “t*oia” non sia merce importata da un mondo adulto che si finge tale? Da padri e madri che hanno profili indistinguibili da quelli dei figli? Alessio Tucci, 19 anni, è un femminicida, ma fermarsi a una dichiarazione così essenziale non è sufficiente.

Le parole di Vincenzo De Luca e Massimo Cacciari
Ben vengano allora analisi che vadano oltre la questione del patriarcato, sempre più simile a una coperta sì calda, ma talvolta anche molto corta. Vincenzo De Luca (presidente della Regione Campania) alla Mostra d’Oltremare di Napoli: “Ho letto sui giornali la vicenda della ragazzina uccisa ad Afragola a 14 anni, ho letto che era fidanzata da due anni con un ragazzo, cioè da quando aveva 12 anni. Non so… è difficile”. A Valeria Angione, lì presente al dibattito, premeva subito ribadire l’ovvio, ossia che un maschio ha ucciso una femmina, facendo passare ogni ulteriore considerazione come superflua e potenzialmente misogina ("Il problema non è l'età di lei, ma il ragazzo che l'ha ammazzata. Da influencer non mi sento di dare la colpa alla ragazza che aveva 12 anni quando si è fidanzata, mi fa male sentir dire queste cose. È il ragazzo che l'ha ammazzata, perché maschio"), ma De Luca ha proseguito: “È normale che una ragazza di 12 anni, che è una bambina, si fidanzi senza che nessuno dica niente? Per me è un problema. Io concordo che la violenza, quale che sia l'interlocutore, è sempre violenza. In genere c'è un dibattito anche sul modo di presentarsi. Siamo libere, la donna deve presentarsi come vuole, mettersi mezza nuda… Nessuno deve dire nulla. Non c'è
dubbio, io ho il diritto di fare quello che voglio. Poi ti posso dire, da padre, che forse, siccome abbiamo un mondo nel quale ci sono persone con un po' di disturbi, un po' di fragilità, è ragionevole avere un po’ di prudenza. Non contesto il tuo diritto, ti dico cerchiamo di essere umani, e di capire la realtà, altrimenti moriamo di ideologismi". Parole “nuove”? Rivoluzionarie? Certamente no. Brutalmente realiste? Forse sì. Tutti, in questo momento, abbiamo bisogno, Angione compresa, di un lungo bagno di realtà se vogliamo capire la realtà senza fermarci oggi ad Alessio Tucci e domani a chi? Assassini con un nome e un cognome, ci mancherebbe, ma che a 19 anni – ma anche meno – sono armati, a monte, da qualcosa che crediamo meriti lo sforzo di un’analisi.

Ci si provi, quantomeno. Ci ha provato, a suo modo, anche Massimo Cacciari, il filosofo dissidente della sinistra italiana: “Di che cosa ci stupiamo noi “grandi”? C'è un linguaggio di violenza diffuso, il crollo di ogni forma di diritto internazionale, il diritto del più forte che vige ovunque. Noi “grandi” stiamo seminando tempeste dalla mattina alla sera. […] Stiamo discutendo di queste tragedie che avvengono tra i giovani e trattiamo i giovani – nei fatti: scuola, servizi, sanità – molto peggio di come ero trattato io quando avevo vent’anni. […] Prima di tutto bisogna porre al centro l’attenzione sulla questione dei giovani: i loro livelli retributivi, i salari, riattivare il diritto allo studio che è andato in pensione in questo Paese, perché non c’è più il diritto allo studio; quarant’anni fa c’era addirittura un presalario all’università, è stato cancellato tutto. La scuola è ridiventata una scuola di classe. Questo non c’entra ovviamente con i femminicidi, ma crea un contesto generale in cui emerge il linguaggio della violenza. La violenza significa anche che io devo arrangiarmi, che non sono difeso, che non sono protetto, per farmi strada nella vita devo competere. Questi giovani sono in competizione, in maniera che voi non vi immaginate! È una forma di violenza. Perché quando la competizione avviene in un certo ordine, è meritocratica, va bene. Ma qui è violenta la competizione fra i giovani per affermarsi. Non era così una generazione fa e tantomeno due generazioni fa”.
De Luca e Cacciari non hanno per forza azzeccato ogni sillaba, le loro opinioni possono tranquillamente essere discusse, non sono in alcun modo vangelo. Ma non vanno stroncate sul nascere solo perché colpevoli di non essersi affidate a “patriarcato”, termine passepartout che, a seconda dei casi, può suonare più o meno pertinente. Se per una buona volta volessimo provare a capire per rimettere tutto in gioco, forse sarebbe meglio aprire, con atti di sincerità estesa e contagiosa, gli orizzonti. Perché qui, le questioni, sono tante. E riguardano tutti, non solo quei maschi che ancora usano la clava.
