Immaginate che il collasso del “modello Milano” – le inchieste sull’urbanistica, il carovita, i giovani in fuga, la Torre Generali a CityLife che perde la sua insegna come un simbolo di declino – non fosse accaduto a Milano, ma in una città del Sud. Napoli, Palermo, Catanzaro. Non ci sarebbero stati eufemismi, né mezze misure. Le indagini su assessori e immobiliaristi, i cantieri bloccati, i progetti urbanistici fermi sarebbero stati immediatamente etichettati come un’operazione contro la mafia. I titoli dei giornali avrebbero gridato: “Camorra a Napoli”, “Palermo nelle mani della criminalità”, “Catanzaro ostaggio della ‘ndrangheta”. Ogni intoppo, ogni progetto fallito – dal Pirellino alle residenze Lac – sarebbe stato la prova definitiva dell’incapacità del Meridione di gestire il progresso.
Ma quando tutto questo accade a Milano, il racconto cambia. Le inchieste per corruzione, traffico di influenze, false dichiarazioni diventano “un problema complesso”, un inciampo temporaneo in una città che si vuole ancora raccontare come il faro della modernità. Si parla di “crisi”, non di sistema marcio. Perché? Perché Milano è il bronzo che deve brillare come oro, una bolla economica sostenuta da una meta-narrazione che protegge investimenti, speculazioni e un sistema che sacrifica i giovani sull’altare di una falsa meritocrazia. Questo doppio standard non è solo una questione di linguaggio: è un dispositivo culturale che rivela una discriminazione profonda, radicata in un’Italia che non ha mai superato la “questione meridionale”. Il Sud è il luogo del disordine congenito; Milano, il tempio del progresso, dove gli errori sono sempre accidentali, mai strutturali.

Se il disastro di Milano fosse accaduto a Napoli, non si sarebbe parlato di “cattiva gestione” o di “errori amministrativi”. La parola “mafia” sarebbe esplosa come un ordigno, saturando il discorso pubblico. Ogni cantiere fermo, ogni progetto urbanistico bloccato – pensiamo ai 250 progetti edilizi congelati a Milano, che coinvolgono 40 mila inquilini – sarebbe stato letto come la prova di un sistema criminale. Ma i fatti sono ostinati: le torri di CityLife, i progetti olimpici in stallo, le indagini che coinvolgono assessori come Giancarlo Tancredi e immobiliaristi come Manfredi Catella non hanno nulla di intrinsecamente “nordico”. Sono il sintomo di un fallimento sistemico, che potrebbe appartenere a qualsiasi città, ma che a Milano viene protetto da una narrazione che rifiuta di chiamare le cose con il loro nome.
Il Sud, in questo scenario, diventa uno specchio. Non perché sia il luogo della mafia, come il pregiudizio vorrebbe farci credere, ma perché è il luogo dove Milano potrebbe riconoscersi, se solo avesse il coraggio di guardarsi. La città che si racconta come capitale della moda, della finanza, del progresso, sta crollando sotto il peso delle sue contraddizioni: un carovita insostenibile, stipendi che non differiscono dal resto d’Italia, una qualità della vita che per molti è diventata “folle”. E i giovani, che arrivano a Milano sognando opportunità, finiscono per essere carne viva sacrificata a un sistema che protegge i grandi interessi immobiliari e finanziari, mentre la città si svuota di chi non può permettersi di restarci.

Il Partito Democratico e il garantismo opportunistico
Il comportamento del Partito Democratico (Pd) in questa vicenda è un paradosso che merita attenzione. A Milano, dove il Pd governa da anni – prima con Pisapia, poi con Sala – ci saremmo aspettati un’ondata di indignazione giustizialista, in linea con la retorica del partito che spesso ha fatto della lotta alla corruzione una bandiera. Invece, quando le inchieste hanno travolto la giunta Sala, con il sindaco stesso indagato, il Pd si è trasformato in un baluardo del garantismo. Sala è stato difeso a spada tratta, le indagini minimizzate come “un momento di difficoltà” che non intacca il “modello Milano”.
Se un sindaco del Sud fosse stato indagato per corruzione, il Pd avrebbe probabilmente chiesto dimissioni immediate, parlando di “sistema malato” e di necessità di “pulizia”. Ma a Milano, il partito ha scelto di proteggere il sistema, anche di fronte a prove schiaccianti, come le chat in cui l’ex vicesindaca De Cesaris avvertiva Sala: “Mollate un po’ coi cantieri, vi travolgono”. Questa difesa non è solo politica: è un atto di fede in una narrazione che deve sopravvivere a ogni costo. Perché se il mito di Milano crolla, crolla anche la bolla economica che sostiene la città: gli investimenti, le speculazioni immobiliari, il flusso di capitali internazionali.
Il prezzo di questa narrazione lo pagano i giovani. Arrivano a Milano sognando meritocrazia, ma scoprono che gli stipendi sono gli stessi del resto d’Italia, mentre il costo della vita è insostenibile: affitti che divorano il 70% del reddito, una città che li espelle verso periferie sempre più lontane o, sempre più spesso, verso il Sud, dove la vita è più umana, più sostenibile.

NoLo: il trionfo della narrazione sui social network
Prendiamo il quartiere NoLo, North of Loreto, come esempio emblematico. Vent’anni fa, NoLo era un quartiere degradato, con problemi di criminalità, spaccio, edifici fatiscenti. Oggi, grazie a un’operazione di branding, è diventato il “quartiere cool” di Milano, celebrato da riviste patinate, influencer, hashtag su Instagram. Ma la realtà è testarda: NoLo è ancora un quartiere con strade sporche, tensioni sociali irrisolte, case che cadono a pezzi. Eppure, gli affitti sono schizzati a livelli inaccessibili, i prezzi delle case sono da capogiro. NoLo non è cambiato davvero: è stato “venduto” come un gioiello del “modello Milano”.
Questo è l’effetto della post-capitalizzazione dei social network, dove la narrazione supera il reale. NoLo è un set, un’immagine, una storia da raccontare, non un luogo dove la vita è davvero migliorata. Ma, come ci ricorda Jacques Lacan, il reale prima o poi arriva. Lo racconta splendidamente in Vita con Lacan (Raffaello Cortina Editore) Catherine Millot, quando descrive l’episodio in cui Lacan, correndo troppo veloce per le strade di Parigi, viene fermato da una paletta della polizia. Quel gesto – una paletta che interrompe la corsa – è il reale che irrompe, che squarcia la narrazione. A NoLo, il reale è fatto di giovani che non possono permettersi l’affitto, di famiglie escluse dalla gentrificazione, di una città che vive di apparenze mentre i suoi problemi strutturali vengono ignorati.
La paletta della polizia: il reale che irrompe
L’episodio della paletta della polizia, narrato da Millot, è una metafora potente. Lacan, correndo per le vie di Parigi, si trova improvvisamente fermato da un gesto banale, autoritario, che lo riporta alla realtà. Non è più il filosofo, il pensatore: è un corpo, vulnerabile, costretto a fermarsi. Milano, come Lacan in quella corsa (ci sono passato so di cosa parlo), ha cercato di sfuggire al reale per anni, costruendo una narrazione di successo, di progresso, di “città che non si ferma ma (ricordatevi l’imbarazzante video durante il Covid di una Milano che non si ferma). Ma le inchieste, i cantieri bloccati, il carovita, i giovani che scappano al Sud sono la paletta della polizia che ferma la città. È il reale che bussa, che squarcia la bolla della narrazione.
Il Sud, in questo scenario, non è solo uno specchio, ma una possibilità. Non il luogo della mafia, come il pregiudizio vorrebbe, ma il luogo dove il reale è sempre stato più visibile, meno mascherato da narrazioni patinate. I giovani che lasciano Milano per il Sud non scappano solo da un sistema insostenibile: cercano un’alternativa, un modo di vivere che non sacrifichi la loro esistenza a una falsa meritocrazia.

Da Pisapia al disastro di Sala
L’entusiasmo della giunta Pisapia, tra il 2011 e il 2016, era palpabile. Milano sembrava poter essere una città per tutti, inclusiva, progressista. Pisapia parlava di sogni, di speranze, di una città che non lasciava indietro nessuno. L’Expo 2015 sarebbe dovuto essere il trampolino di lancio per una Milano globale. Ma quel sogno si è infranto. L’Expo, come scrive il Corriere Milano, è stato “l’apice: si è avuta la sicurezza che potevamo entrare nel futuro con fiducia”. Ma quella fiducia era mal riposta.
Oggi, sotto la giunta Sala, Milano è una città che ha tradito i suoi giovani. La meritocrazia promessa è una chimera: gli stipendi non sono più alti che altrove, ma il costo della vita è insostenibile. I giovani, che arrivano sognando opportunità, finiscono per essere sacrificati a un sistema che protegge i grandi interessi immobiliari e finanziari. E quando il reale arriva – sotto forma di inchieste, di cantieri fermi, di una città che non riesce più a sostenere la sua narrazione – il Pd, invece di fare autocritica, si chiude in una difesa cieca del “modello Milano”.
Il Sud come possibilità di redenzione
Immaginare il disastro di Milano al Sud non è solo un esercizio speculativo: è un modo per smascherare il pregiudizio che ci impedisce di vedere il Meridione come un luogo di possibilità. Il Sud, con le sue contraddizioni, la sua lentezza, la sua umanità, potrebbe essere il luogo dove ricostruire un modello diverso, meno frenetico, meno basato sulla narrazione e più radicato nel reale. I giovani che scappano da Milano verso il Sud cercano una vita più umana, più sostenibile.
Milano deve smettere di vendere bronzo come oro. Deve smettere di sacrificare i suoi giovani per proteggere una bolla economica che, come l’insegna di Generali crollata a CityLife, mostra le sue fragilità. Guardandosi nello specchio del Sud, Milano potrebbe imparare qualcosa: che il reale arriva sempre, e che per costruire un futuro vero bisogna avere il coraggio di smontare le narrazioni e affrontare la verità.