A Cinto Caomaggiore, in provincia di Venezia, si è sfiorata la tragedia. Questa mattina un uomo ha lanciato la figlia di cinque anni dal balcone e poi si è gettato a sua volta per tentare il suicidio. La bambina, figlia di genitori separati, si trovava in compagnia del padre per trascorrere le vacanze natalizie. La bambina è stata trasportata d’urgenza all’ospedale di Treviso in codice rosso per un trauma cranico, ma non sarebbe in pericolo di vita. L’uomo, invece, è stato fermato con l’accusa di tentato omicidio. Abbiamo a che fare con un padre disperato? Sicuramente la cronaca degli ultimi anni ci mostra come sempre più uomini decidano di togliere la vita ai propri figli. E poi tentino di togliersi la vita. Perché lo fanno? Gli uomini coinvolti in questi eventi mostrano una fragilità emotiva e forte avversione all’insuccesso. In concreto, reagiscono in modo sanguinario alla minaccia di perdere la propria mascolinità attraverso la rottura della famiglia da parte della donna. Una donna che, nella maggior parte dei casi, decide di continuare il suo cammino ponendo fine alla loro relazione. Questo fenomeno coinvolge padri di varie estrazioni sociali, senza distinzione di sorta. L’uccisione dei figli diventa dunque un mezzo per riaffermare il potere e infliggere dolore alla madre: un dolore straziante, come quello che può nascondersi dietro la perdita di un figlio. Lasciandola senza nessuna chance di comprendere le motivazioni e le ragioni scellerate dietro un gesto così innaturale.
Sono uomini che decidono di togliersi la vita per condannare la madre al più terribile degli ergastoli. Quello di non sapere le ragioni dell’estremo gesto. Un fenomeno simile alla sindrome di Medea, che muta in modo camaleontico da donna a uomo. Uomini vulnerabili, pervasi dalla collera. Ancora una volta, l'ambiente domestico, originariamente pensato come custode degli affetti, si trasforma in una scena del crimine. Con la differenza però che solo in casi limite le madri assassine decidono di togliersi la vita, al contrario di quanto facciano gli uomini, le cui scelte non sono mai frutto di un momento. Difatti, anche quando c’è un trascorso psichiatrico alle spalle, non si diventa spietati assassini dalla sera alla mattina. Ci sono tutta una serie di meccanismi e campanelli di allarme che sono il prodotto di un deserto emozionale e di un azzeramento delle risorse personali. Uomini incapaci di sopravvivere in ogni contesto della loro esistenza. Sia esso individuale sia esso relazionale. Uomini che conoscono a quel punto solamente un’arma: quella della violenza. Sia essa di natura fisica sia essa di natura psicologica. In quest’ottica, i figli vengono visti esclusivamente come un prolungamento della loro madre. Di fronte a una simile percezione, non c’è altro da fare se non eliminarli. Perché solo attraverso quella distruzione che il padre sterminatore si illude di poter ripristinare la mascolinità ed il ruolo che avevano in origine sul disgregato nucleo familiare. Chiaramente, ciò si verifica nel momento di maggior picco di frustrazione e collera. Perché in quel frangente è come se, nel loro cervello, gridassero al mondo: “Guardate il potere che ho”. Sono padri che uccidono i figli per punire le loro madri, di cui i piccoli assumono simbolicamente le vesti. Seppur in maniera più vulnerabile. Quel che conta è colpire Lei. Il figlio è solamente una conseguenza. Purtroppo. Una vendetta che si spinge ben oltre il femminicidio perché capace di superare la morte strettamente intesa della donna che resta. E che, prima di essere donna, era madre. Per quel che riguarda loro, invece, quando non si uccidono o non ci riescono, non provano il benché minimo senso di colpa.