Stellantis al crocevia. Mentre a Melfi si apre il tavolo sindacale sul futuro dello stabilimento e dopo che a valle dell’incontro con Giorgia Meloni il presidente serbo Aleksandr Vucic ha confermato che il gruppo nato dalla fusione Fca-Psa produrrà nel suo Paese la Panda elettrica, lasciando quella tradizionale a Pomigliano. Resta poi il grande punto interrogativo del futuro dell’auto italiana mentre si avvicina la scadenza del 2035, anno del definitivo passaggio all’elettrico dell’Unione Europea. In attesa di novità dal tessuto industriale e dal fronte politico, buona parte delle grandi case automobilistiche inizia a far fronte. E industrialmente, spiegano fonti vicine al mondo Stellantis a MOW, è bene sottolineare che a tutto campo le case stanno anticipando di fatto al 2030 la ristrutturazione industriale delle loro filiere. In quell’anno entreranno in vigore le prime prescrizioni europee sui tagli alle emissioni. Dunque per un’azienda produttrice è difficile pensare di aspettare cinque anni ulteriori per adeguarsi alle prospettive del 100% elettrico. Queste prospettive toccano da vicino anche Stellantis, che è il quinto gruppo auto mondiale per fatturato e il nono per capitalizzazione. E che in questi anni sta vedendo nell’Italia un perno sempre meno stabile. Non inganni la “nazionalità” della famiglia Agnelli, ormai Agnelli-Elkann. Già Fiat-Chrysler pensava da gruppo angloamericano con sede fiscale in Olanda. Ora in Stellantis la preminenza francese, certificata dalla presenza di capitale pubblico a presidio, si è sommata alla globalizzazione del gruppo. L’ad Carlos Tavares ragiona sulla scia di un gruppo globalizzato che oggi deve avere a che fare con le prospettive di mercato incerte delle auto elettriche, “forzate” dalla legge a essere il 100% del venduto nel 2035 ma oggi ferme al 15. E bloccate da un contesto che vede buona parte dei modelli europei eccedere la soglia di accettabilità dei 25mila euro a unità, mentre l’Europa è invasa dalle auto elettriche cinesi che sfruttano i sussidi pubblici di Pechino e un fattore-costo positivo.
Non è un Paese per auto
Stefano Cingolani mostra in un’analisi per Il Foglio i crucci di Tavares. “Nessuna delle aziende che compongono la galassia Stellantis aveva puntato in modo consistente sul veicolo elettrico, quindi l’impatto sulla struttura produttiva, sulle fabbriche, sui lavoratori sarà ancor più dirompente”, specie di fronte alla necessità di compattarsi per ottenere un fattore-costo positivo. La scelta di delocalizzare in Serbia va nella direzione di inseguire i competitor sul terreno del fattore-costo, guardando all’Italia più come a una liability che come a un asset. Questo in un contesto in cui, nota Cingolani, “gli impianti sono tutt’altro che saturi, anche se il 2023 è un anno di ripresa per Stellantis (+10 per cento) soprattutto grazie a Pomigliano (+31 per cento)”, mentre “la VM di Cento (Ferrara) che fabbrica motori è al 50 per cento della sua capacità, Termoli (propulsori a benzina, con 2.369 operai) trema, la produzione di cambi tradizionali (a Biella e a Mirafiori) è in via di estinzione, a Cassino (Alfa Giulia e Stelvio) non sono sicuri i 3.176 posti di lavoro nemmeno con la Maserati Grecale”. Nei piani industriali Stellantis, ci riportano fonti qualificate vicine al gruppo, esiste certamente modelli per i quali la produzione della versione endotermica rimarranno dove sono (all'estero, con volumi attualmente più alti) mentre la versione ad alimentazione elettrica sarà fatta in Italia. E qui tutti gli occhi sono puntati su Melfi, ma ovviamente con volumi più bassi di quelli raggiungibili in siti quali quelli serbi.
I guai della corsa al ribasso sul prezzo
Per i nostri informatori nelle file Stellantis, è chiaro che in quest’ottica il problema principale non sarà tanto la strategia di allocazione dei modelli da parte delle singole aziende private, quanto piuttosto la politica europea di elettrificazione e la convergente esistenza, o meno, di politiche per il sostegno alla filiera. Tanto più che oggigiorno solo precisi incentivi alla commercializzazione e sussidi diretti all’acquisto possono favorire la diffusione di questi modelli nel grande pubblico. In quest’ottica, l’assenza di un sistema industriale targato Stellantis di sostegno alla catena del valore e per l’impianto in Italia di una strutturata serie di filiere finalizzate a fare del Paese, delle sue maestranze e delle sue eccellenze l’hub per servire l’elettrificazione di domani si è associata alla mancanza di un disegno strategico italiano. Perché non entrare nel capitale di Stellantis al momento della sua costituzione, lasciando alla sola Francia la mano pubblica interna al gruppo? Perché languono gli sforzi per espandere oltre l’Euro 7 e gli e-fuels le alternative alla transizione elettrica in un contesto che vede l’Europa in condizioni di minorità rispetto a Stati Uniti e Cina? Perché, soprattutto, nessuno stop alle manovre di disinvestimento degli Agnelli-Elkann prima della creazione di Stellantis?
Il crollo della produzione di auto
La vendita di Magneti Marelli e i segnali preoccupanti dati dalla Real Casa di Torino con l’idea di dismettere Iveco emersa nel 2021 mostrano un disinteresse per il Belpaese che va di pari passo con il calo delle prospettive produttive del sistema nel suo complesso. Oggi l’Italia sforna 480mila veicoli l’anno, meno di un terzo di quelli che produceva a inizio secolo (erano oltre 1,4 milioni nel 2000). La desertificazione industriale non è un rischio, ma già una realtà che ha reso sempre più dipendenti da altri mercati, come quello tedesco, e dalle loro buriane il nostro sistema di Pmi e dell’indotto. Capire le prospettive dell’elettrico da un lato e capire come mitigarne le esternalità negative per il sistema-Italia sarà una sfida vitale per gli anni a venire. Se non vuole pensarci Stellantis, dovrà farlo lo Stato con le sue strutture. Industrialmente, c’è in ballo il futuro di un settore un tempo glorioso e che non può arrendersi inesorabilmente al declino. A cui pubblico e privato stanno, da anni, cooperando per consegnarlo.