Lasciamo perdere la spiegazione sulla legge elettorale americana, nel 2024 se uno si interessa di politiche a stelle e strisce diamo per scontato la conosca, ma segnaliamo comunque che tale legge – basata sul sistema dei grandi elettori, ogni Stato ne elegge un certo numero, il candidato che vince anche solo per un voto in più se li prende tutti – non è una “legge assurda”, come puntualmente viene ripetuto sui giornali italiani ogni volta che se ne parla: semplicemente, gli Stati Uniti sono uno Stato federale, ovvero una collezione di Stati diversi con leggi diversi, con clima, flora e fauna completamente diversi, e questa legge ha il merito di rifletterne la natura. È per effetto di tale legge, dunque, che la battaglia elettorale - prevista il 5 novembre - si riduce a quegli Stati dove i due fronti in gara si giocano la maggioranza assoluta per un pugno di voti: i famosi “swing state” (e non “swinging” come dicono la maggior parte degli espertoni italici impegnati nelle dotte “maratone”: di swinging c’è solo la Londra dei tardi ’60). Un tempo, gli swing state da vincere a tutti i costi erano sostanzialmente due, Ohio e Florida, capaci, di garantire circa 50 grandi elettori, circa il 25% del totale necessario a vincere. Oggi non è più così: la Florida post-Covid è saldamente repubblicana, e anche l’Ohio è un feudo repubblicano abbastanza sicuro. Per contro, Paesi una volta considerati porti sicuri conservatori sono diventati contendibili, come la Georgia (che è profondo sud, ma è a maggioranza afroamericana), l’Arizona, il Nevada, lo stesso North Carolina dove entrambi i candidati hanno chiuso le rispettive campagne elettorali.
Alla luce di tutto questo, la situazione attuale, è questa: la Harris ha 226 delegati sicuri, Trump 219, con 7 Stati ancora incerti. Gli Stati incerti: Nevada (6), Arizona (11), Georgia (16), North Carolina (16), Wisconsin (10), Michigan (15), Pennsylvania (19). Al netto dei miliardi di chiacchiere che si sono sentite nelle ultime settimane, e che sentiremo nelle prossime ore, la situazione è quella illustrata sul sito 270towin.com, l’unico che si limita a offrire dati statistici, facendo le medie ponderate dei sondaggi (di tutti i sondaggi, sia quelli commissionati da emittenti democratiche che repubblicane, in uno scenario, quello attuale dei media statunitensi, corrotto dalla propaganda come nemmeno nelle distopie novecentesche). In Nevada è avanti Trump (0.7%), in Arizona pure (1.4%), e lo stesso in Georgia (1.4%) e North Carolina (1.5%). Questo porterebbe il totale dei suoi elettori a 264. La Harris risulta avanti negli stati della cosiddetta Blue Belt, a suo tempo decisivi per la vittoria di Trump nel 2016: Wisconsin (1%), Michigan (1.7%) cosa che la porterebbe a 251. Con Trump a 264 e la Harris a 251, per arrivare al “magic number” dei 270 delegati – la maggioranza assoluta – risulterebbe decisiva la Pennsylvania e i suoi 19 grandi elettori in palio. A ieri notte, la media ponderata di tutti i sondaggi, dava Trump in vantaggio dello 0.1%. Entrambi gli schieramenti (ripetiamo: al netto delle chiacchiere) non possono né rilassarsi né disperare. Per quanto riguarda la Harris, i dati dalla Pennsylvania parlano di 100 mila “early birds” ovvero elettori che hanno votato in anticipo, soprattutto nei segmenti demografici in cui la Harris è certa di vincere se non di stravincere: afroamericani e donne diplomate o laureate. Da notare che l’80% di questi centomila elettori sono persone che non si erano precedentemente iscritte alle liste elettorali (ovvero: non hanno votato nel 2020). Dato il totale dei voti attesi in Pennsylvania, e i margini risicatissimi, questa onda anomala di votanti fa pensare che l’ago della bilancia possa spostarsi verso la Harris, esattamente la stessa cosa accaduta quattro anni fa con Biden, quando un’altra onda anomala di votanti provenienti dai territori sub-urbani determinò la sua vittoria. Parlando di Trump, invece, è impossibile non ricordare come sia nel 2016 che nel 2020 i sondaggi lo avessero clamorosamente sottostimato. Contro la Clinton era dato sotto di 11 punti a livello nazionale (che, come abbiamo detto, non conta nulla a fini pratici, ma da comunque l’idea del clima di fondo), di 8 punti sotto in Florida (dove vinse), di 10 punti sotto nella Blue Belt (dove vinse ovunque), eccetera. Il giorno delle elezioni (lo ricordo perfettamente, vivevo a New York) uscì in prima pagina sull’autorevolissimo New York Times un editoriale che annunciava la vittoria della Clinton, affermando che “da un punto di vista statistico, i giochi sono chiusi da tempo”. Si è visto come è andata. Non tanto diverso quanto accaduto nel 2020, quando le elezioni si sono decise per 25 mila voti di “early birds” in Pennsylvania, e per una ventina di contee della Georgia nei dintorni di Atlanta – laddove per mesi, dalla morte di George Floyd in poi, i giornali unificati parlavano di “tsunami blue”. Bisogna quindi notare come mai prima d’ora Trump avesse goduto di numeri così lusinghieri nei sondaggi, e che se quell’effetto-rimonta dovesse ripetersi, anche in misura infinitamente minore, la strada per la Casa Bianca sarebbe spianata. La testata The Hill ha però scritto un editoriale, di recente, in cui spiega perché quest’anno i sondaggi sono molto più credibili che in passato, e qui si entra nel campo del “credere per vedere”: niente è più verificabile su base empirica.
Comunque vadano le cose, la Pennsylvania è anche uno degli Stati in cui le procedure di voto sono tra le più “allegre”: quando si pensa alle elezioni, noi italiani pensiamo alla tessera elettorale, alle scuole chiuse presidiate dalla polizia, all’esibizione del documento davanti al Presidente di seggio. Scordatevi tutto questo quando pensate agli Usa: in certi Stati non serve identificarsi con il documento per votare, in altri (inclusa la Pennsylvania) si vota per posta, senza nessuno che controlli chi ha effettivamente espresso il voto. Praticamente ovunque si vota nei anche negozi, nei deli, negli alimentari, negli uffici. Gli Usa, del resto, sono l’unica democrazia che nel 2000 espresse un presidente (G.W. Bush) nonostante fosse certificato il fatto che avesse preso meno voti del competitor (Al Gore), il tutto perché erano scaduti i tempi per effettuare ulteriori riconteggi. Tutto questo per dire che quando sentite gli espertoni delle maratone parlare della “più grande democrazia del mondo” siete autorizzati a farvi una risata. E anche per anticipare che, comunque vada, ci sarà sicuramente da aspettarsi uno scenario post-voto più complicato di quello del 2020.