C’è chi ha il mare più blu. Chi ha la cucina più buona. Chi le cime più alte e innevate. Ma solo Libera, l’associazione fondata da don Ciotti, proprio oggi e come ogni anno, ha voluto ricordare che esiste una classifica pure dell’ormai collaudato campionato nazionale della corruzione. E qui si gioca purtroppo tutti sempre in Serie A. Lo dice, appunto, il nuovo dossier di “Libera”, che ha passato un anno a spulciare inchieste, atti giudiziari e resoconti di stampa, scattando la solita fotografia tristemente nitida nonostante le sfocature immortalate: l’Italia, da Nord a Sud, resta un Paese dove l’onestà non trova mai le chiavi e la mazzetta invece apre ogni porta.
A dominare la classifica delle regioni più corrotte – guardando il numero di indagati – c’è la Campania, con 18 inchieste e 219 persone indagate. Non una sorpresa, più una conferma. Seguono Calabria, con 141 indagati, Puglia (110) e Sicilia (98). La prima nordica nel tabellone è la Liguria, con i suoi 82 indagati, seguita a ruota dal Piemonte (80) e dalla Lombardia (quarta nella classifica delle inchieste) che non può certo sventolare la bandiera dei virtuosi. Le regioni centrali non restano a guardare: Lazio e Toscana hanno il loro carico di indagini, dieci e dodici rispettivamente, a dimostrazione che Roma non è solo la capitale d’Italia, ma anche quella – onoraria – delle intermediazioni creative. Al fondo della classifica, con poche inchieste e un numero più contenuto di indagati, resistono Trentino-Alto Adige, Valle d’Aosta e Basilicata. Piccole e oneste, o forse solo più abili nel non far trapelare troppo?
Il quadro generale è tutt’altro che consolante: 96 inchieste in un anno, il doppio rispetto al 2024, con 49 procure impegnate e oltre mille persone indagate. Un esercito di piccoli e grandi protagonisti del malaffare — amministratori, imprenditori, funzionari, manager pubblici e qualche immancabile religioso più devoto ai conti che ai crocifissi. Dai falsi certificati di residenza alle mazzette per appalti sanitari, dai concorsi universitari pilotati agli scambi di favori per licenze edilizie, passando per la gestione allegra dei rifiuti e le grandi opere dal retrogusto mafioso: è una catena di montaggio dell’irregolarità, dove ogni ingranaggio conosce perfettamente il proprio posto e il silenzio è la vera moneta di scambio.
La stessa Libera non usa mezzi termini: la corruzione, oggi, è un sistema “regolato”, un ecosistema dove il ruolo del garante non è più il funzionario integerrimo. Ma il mediatore. Il faccendiere. L’imprenditore con amicizie bipartisan o il “politico d’affari”. È la normalità e lo si percepisce anche nei numeri del sondaggio condotto dall’associazione insieme a Demos, secondo cui il “56% degli italiani crede che la corruzione sia rimasta ai livelli di Tangentopoli”, mentre il 31% pensa che sia addirittura peggiorata. Soltanto il 10% ritiene che qualcosa sia migliorato, ma l’impressione è che si tratti di una minoranza disinformata.
Più che un problema giudiziario, ideologico o addirittura partitico, quindi, la corruzione appare ormai come una “malattia organica del Paese”, una patologia che muta con la società: meno buste piene e più firme digitali, meno bustarelle e più procedure semitrasparenti, meno tangenti brutali e più “gentili concessioni”. La cittadinanza, al contrario, appare in ritirata. Secondo Libera, i cittadini che partecipano a manifestazioni o iniziative contro la corruzione sono in netto calo, non per disinteresse ma per sfiducia: metà degli intervistati dichiara di non partecipare perché “tanto non serve a nulla”.
Eppure qualche segnale resiste. Ma è tristemente riconducibile alla delazione più che alla civiltà. Perché cresce, ad esempio, la fiducia verso il “whistleblowing”, la segnalazione anonima degli illeciti: “tre italiani su quattro la ritengono un vero dovere civico”. È la nuova forma di dissenso, ma è pure il segno che ormai in Italia si ritiene ci si debba nascondere nel rivendicare onestà. E alla fine di questa radiografia nazionale, quel che emerge non è un’Italia divisa fra onesti e corrotti, ma un Paese dove “la corruzione è diventata un cilindro elastico, si allarga o si restringe a seconda delle opportunità”. Campania, Calabria e Puglia ne incarnano la versione esplicita e rumorosa; Lombardia e Liguria quella elegante e contrattuale; le regioni più piccole forse solo quella discreta. Ma ogni territorio ha la sua rete. La sua grammatica del favore. La sua liturgia dell’accordo. È quello dei furbi è l’unico federalismo mai applicato veramente. C’è poco da fare i campanilisti: la corruzione è il dialetto volgare che s’è fatto lingua nazionale. Anche se fingiamo di non capirla