Ci sono momenti in cui la verità non arriva come una rivelazione, ma come una colpa rimossa che ritorna. Tre anni dopo il ritrovamento del corpo senza vita di Liliana Resinovich, ecco la volta che sarebbe dovuta essere il punto di partenza: «Non vi sono elementi tecnico scientifici che supportino l’ipotesi del suicidio». A scriverlo, senza equivoci, è l’antropologa forense Cristina Cattaneo, la stessa che ha inchiodato Bossetti per l’omicidio di Yara e scavato, letteralmente, nei misteri del caso Orlandi. È l’ora, troppo tardiva, del risveglio da una lunga cecità giudiziaria.
Secondo la Cattaneo, la morte di quella che molti media chiamano confidenzialmente Lilli è avvenuta «nella mattinata del 14 dicembre 2021», lo stesso giorno della scomparsa. Il cadavere, rinvenuto ventidue giorni dopo in un boschetto vicino all’ex manicomio di Trieste, «non è stato spostato» e non vi è «alcun elemento che indichi un congelamento del corpo». Le cause del decesso? «Asfissia meccanica esterna», accompagnata da «lesività traumatico-contusive» su testa, torace, arti. Non ci sono dubbi: Liliana è stata soffocata. Picchiata. Uccisa. Non è caduta. Non si è fatta del male da sola. E no, non si è suicidata.
A questo punto, il caso cambia pelle. Ma le sue ossa investigative scricchiolano. Gianluigi Nuzzi, su Specchio, inchioda l’intero impianto di indagine con parole taglienti: «È possibile perdere tre anni prima che si chiarisca che quella donna non si è suicidata ma è stata uccisa?». E non è solo una questione di tempo. È una questione di metodo. E di errori.

«Non solo la borsetta è stata svuotata sul corpo della donna», scrive Nuzzi (giornalista che è anche conduttore di Quarto Grado su Rete 4), «non solo il contenuto è andato a contaminare la scena del crimine e il corpo stesso, ma addirittura elementi piliferi non erano stati visti e quindi repertati». Le prove c’erano. Ma non sono state raccolte. Oppure lo sono state male. E allora la domanda diventa feroce: «Le forze di polizia non dovrebbero essere addestrate a non commettere simili errori?».
Ora si impone una rilettura completa di tutti gli atti. Eppure, avverte Nuzzi, «questo infinito periodo trascorso ha consolidato l’alibi dell’assassino e dei suoi eventuali complici». Le tracce si sono sbiadite, i ricordi sono stati corrotti, le accuse sono diventate veleni sociali in una comunità che si è dilaniata.
A farne le spese, oltre alla giustizia, è la memoria di Liliana. «Sulla donna, amanti e presunti tali, amici o presunti tali, hanno svelato dettagli, particolari che Lilli certo non avrebbe amato diffondere». Claudio Sterpin, l’amico speciale, ha parlato troppo e poi ha chiesto scusa. Ma i danni restano. Restano anche le contraddizioni di Sebastiano, il marito, che «tra silenzi e mezze bugie, diventa il principale accusatore di sé stesso».
È lui, oggi, al centro del mirino mediatico. Non indagato, ma avvolto dal sospetto. «È facile prevedere – scrive Nuzzi – che tra poco si scoprirà che sia lui sia altri sono finiti nel registro degli indagati». Gli indizi, le omissioni, i non detti lo circondano da tempo. A puntargli il dito contro ci sono «amici di famiglia, Sergio, il fratello di Liliana, e altri parenti». Eppure, sottolinea Nuzzi, «sperare che si arrivi a una verità rimane – almeno a oggi – un esercizio stilistico di difficile compimento».
Perché questa verità, ammesso che sia ancora raggiungibile, è stata messa sotto vuoto per anni. E ora si tenta di resuscitarla in un’indagine che parte da un campo minato di errori, timidezze investigative, superficialità inspiegabili.
«Questa situazione – scrive Nuzzi – pregiudica evidentemente lo sviluppo delle indagini che si ritrovano al punto di partenza». Ma in questo labirinto giudiziario, chi pagherà il prezzo dell’impunità? Chi restituirà a Liliana – donna silenziosa, finita in un rumore indegno – la dignità che le è stata tolta da chi l’ha uccisa, e poi da chi non ha saputo cercare davvero il suo assassino?
