"Lo scopo dell’istruzione è trasformare una menta vuota in una mente aperta" scrisse Malcolm Forbes. Se ne parla da ore e se ne parla anche male, il corso di Paolo Nori su Dostoevskij annullato per volontà della rettrice Giovanna Iannantuoni (riabilitato con scume ma ora declinato dallo stesso scrittore), ha infiammato la colazione di tutti, lo scroll compulsivo sui social da cui ci informiamo quotidianamente ha avuto un senso stamattina. In questo momento è tutto un parlare di malintesi, contorcersi in retromarce imbarazzanti, e pubblicare dichiarazioni che hanno il sapore della presa in giro: l’Università Bicocca sul suo account Facebook rassicura, cito testualmente, che "la rettrice incontrerà Paolo Nori la prossima settimana per un momento di riflessione". Molto bene, attendo l’incontro tra Nori e la Iannantuoni, magari in Chiesa a mani giunte per chiedere perdono a Dostoevskij, alla letteratura mondiale, a ciò che di buono (come ogni altra cultura) ha dato la Russia, e anche, chissà, a quell’enorme cadavere che è il sistema educativo di istruzione e formazione nel mondo. Ma non è tanto questo a interessarci, ne ha già parlato meglio l’articolo del collega Gianmarco Aimi, quanto lo stormo di avvoltoi sulla carogna della cultura italiana. "Divulgatrici femministe intersezionali", che non hanno il seguito di Madonna, ma hanno parecchie migliaia di aficionados, in queste ore affermano che il comportamento della rettrice è tale perché, in sintesi, è immersa in un sistema patriarcale che non può cambiare, un po’ su falsariga di: Lascia perdere Jack, è Chinatown.
Ma certamente, de-responsabilizziamo le donne in nome di una immagine a una dimensione sola nata dal patriarcato che ci rende, fondamentalmente, burattini senza possibilità di uscire dalla storia. Gira che ti rigira è sempre colpa della cultura creata da maschi cis-etero bianchi privilegiati, e non dalle modalità da vendetta trasversale, nei confronti della Russia, adottate dall’ateneo stesso o, peggio ancora, nell’esercizio pericoloso e malato di creare una safety space anche dentro l’università per "evitare qualsiasi forma di polemica". Eppure l’università dovrebbe essere il luogo deputato alla formazione di una spiccata criticità, oppure è un posto dove si spendono i soldi dei genitori e si subiscono una sfilza di nozioni che cadono dall’alto della cattedra?
Ma facciamo un passo indietro.
Nel 2014 nei college americani, e non solo, veniva richiesto dagli studenti stessi, all’amministrazione, di censurare argomenti, parole e idee che potessero risultare offensivi nei loro confronti. Addirittura, quello stesso anno, gli studenti di giurisprudenza di Harvard chiedevano di non insegnare la legge sullo stupro o, almeno, di non usare la parola stupro per non creare disagio ad alcuni di loro. Questo in nome di una ipersensibilità che non ha nulla a che vedere con la sensibilità, ma che nel primo caso è figlia, in termini psicologici, di un trauma, ma che oggi nella sua sproporzionata diffusione assume le dimensioni di un capriccio e basta, senza nessuna spiegazione ambientale a monte. Siamo nella cultura del pat-pat emotivo e delle incubatrici a noi funzionali e questo lo tastiamo, con effetti negativi, ogni giorno, anche nella critica dei prodotti culturali: tutto è bello e tutto è buono. Basti pensare che chiedere, per esempio, a un asiatico dove si è nati, oggi significa una micro-aggressione a tutti gli effetti.
L’inquietante tendenza che non ha nulla a che vedere col rispetto per gli altri (ma solo ad aumentarne l’ego e a renderli, al contempo, ancora più fragili) con l’istruzione, è sfociata a livelli tali che come ogni tendenza progressista è stata prontamente "rubata" dallo Star System (come per il #MeToo).
Nella diciannovesima stagione di South Park (2015) l’episodio Safe space illustra, nel solito modo politicamente scorretto, la deriva malata di quelle che vengono percepite come aggressioni. Safe space prende principalmente spunto dalla chiusura, momentanea, del profilo di Lena Dunham (creatrice della serie Girls) quando più utenti la chiamarono ‘Cow’.
Lo scopo ultimo sia dei social ma, in particolare modo, della scuola sarebbe unicamente il benessere emotivo.
La cancel culture, in ultima analisi, avrebbe il compito di fornire alle persone un servizio Spa di lusso.
E qui veniamo a un’altra verità, nonché cortocircuito logico e mentale, che divulgatrici e compagni Simp (Sucker Idolizing Mediocre Pussy) delle ‘femministe’ negano da quando è scoppiato l’affaire Noli (roba che Dreyfus spostati proprio): la volontà di annullare il corso su Dostoevskij è a tutti gli effetti cancel culture.
E quale posto migliore per applicarla se non all’università, quel luogo in cui, oltre al web, ha potuto proliferare liberamente?
Punire la Russia per gli atti criminosi attraverso l’ostracismo nell’insegnamento di una parte di storia della letteratura, non solo russa ma mondiale, è cancel culture, cultura del richiamo, censura, chiamatela come volete, e usate tutte le declinazioni di uno o due gradi del caso, il sunto non cambia.
No, a quanto pare non va bene perché parlare di cancel culture in questo contento è vista come appropriazione culturale. In pratica, se condanniamo gli atti delle rettrice chiamando le cose col loro nome stiamo delegittimando le minoranze perché usiamo un loro strumento sociale.
Seriamente?
Sì, Nile Rodgers (afroamericano, ma dalla regia dicono che è sbagliato dire afroamericano) ha inventato inconsciamente, tramite la canzone "Your love is cancelled", la metafora dello scagliarsi contro una persona per un comportamento sbagliato. Incredibile, scommetto che se avesse saputo che più generazioni, dalla Y alla Z, sarebbero diventar ipersensibili e geni come Dostoevskij esiliati dai nostri corsi universitari, probabilmente non sarebbe andato al disastroso appuntamento da cui ha attinto per creare la canzone.
Sto scherzando ovviamente. Nile Rodgers è un grandissimo chitarrista e compositore, ma credo che accuse ridicole come quelle di cui sopra, delle femministe intersezionali 2.0, non meritino risposte seriose.
Negare che non la decisione della Bicocca non sia cancel culture perché non c’è forma di movimento grassroots (no, dai, ti prego), equivale a mentire su tutta la strumentalizzazione che hanno fatto gli attivisti social dall’epoca del #MeToo. Ormai si è entrati in un cul-de-sac da cui non sanno come uscire se non in confuse dichiarazioni nelle stories di Instagram, un vero e proprio vilipendio al cadavere della cultura, e in questo caso alla cancellazione dell’autore di Delitto e castigo. Manco fosse Francesco Sole, per dire, delle cui poesie potrei farne a meno.
Sbaglio o avete anche voi donne, per lo più bianche cis-etero non disabili e privilegiate, condiviso, rilanciato, usato e abusato un movimento come quello #MeToo nato da una minoranza?