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Luigi Di Maio dà l'addio
al M5s e si candida a diventare
il nuovo Giulio Andreotti (ma dei poveri)

  • di Alessio Mannino Alessio Mannino

22 giugno 2022

Luigi Di Maio dà l'addio al M5s e si candida a diventare il nuovo Giulio Andreotti (ma dei poveri)
Ha scosso la politica l’addio di Luigi Di Maio al Movimento che aveva contribuito a portare oltre il 30% ed è arrivato alla fine della giornata più lunga per la tenuta della maggioranza e del governo. L'ex capo politico M5S ha annunciato una "scelta sofferta" ma che pone fine alle "ambiguità" e ha assicurato che nella nuova realtà non ci sarà spazio "per odio, populismi, sovranismi, personalismi, superficialità". Ma per ora deve rendere conto agli elettori dell’incoerenza, del tradimento e del voltagabbanismo che ricordano tanto la Prima Repubblica di andreottiana memoria

di Alessio Mannino Alessio Mannino

Luigi Di Maio ha capito tutto. Tutto quel che c’è da capire, s’intende, per sistemarsi in Italia. “Sistemarsi”, termine di pregnanza assoluta nel lessico dell’italiano medio, ha la radice in “sistema”. Una volta si diceva sistema per significare la macchina del Potere, con i suoi gangli e addentellati a partire dal piano più alto, la vetta dei megadirettori galattici, fino all’ultimo kapò di periferia. Gli italiani che tengono famiglia, cioè tutti, pensano al posto, non più fisso, ok, ma auspicabilmente ben remunerato. Il che è umano, molto umano. Ma prendere posto implica aderire alla logica dell’incasellamento: individuare la greppia, tributare fedeltà canina alla tribù, a parole assoluta e di fatto sempre temporanea, appendersi una coccarda interscambiabile, e sorridere, sorridere, sorridere. Non importano le idee, fogliame che cade al cambiar del vento. Non importano gli ideali, questi ferrivecchi buoni per i libri di storia, con quella serqua di eroi, eroine e grand’uomini immancabilmente finiti come ognuno di noi finisce: nella fossa. Non importa la coscienza, sostituita dalla bandierina, anzi dalla banderuola. Non importa nulla fuorchè il futuro proprio e dei propri fàmuli e famigli. La carriera, non solo in politica, si costruisce così: con la pazienza certosina dell’arrampicatore di specchi e coltivatore del sacro orticello assurto a ragione di vita. Primum sopravvivere, deinde…

“Insieme per il futuro”, appunto, è il marchio che s’è inventato una qualche nullità della comunicazione per attribuire un nome, un nome purchessia, alla brigata di caccia-poltrone al seguito del Giulio Andreotti per meno abbienti. Non vuol dire un beneamato niente, e ci sta: il niente non preclude niente, non pregiudica, non obbliga, non responsabilizza. Fluttua, è aperto a tutto, potenzialmente sta ovunque e con chiunque. La regola del perfetto galleggiatore la conosciamo: mediano regolare, è in grado di posizionarsi dove rischia meno, dove le possibilità aumentano in misura inversamente proporzionale alla cristallinità e linearità – vorremmo dire radicalità – delle proprie esternazioni, opinioni e manifestazioni. Per questo Luigi Di Maio ha fatto Centro: ha compreso, e da mo’, che più sei vicino all’innocuo e all’informe, più muti sembianze assumendo quelle di chi non disturba il manovratore, più investi sull’usato sicuro e sul già sentito, più insomma ti fai concavo e convesso e ti arruoli nell’esercito del luogo comune militante, e più fai carriera e ti assicuri vitto sfarzoso, alloggio lussuoso e avvenire radioso. Naturalmente, il tutto tarato sul metro dell’aurea - eccome se aurea - mediocritas dell’anima. Dopo aver fatto il ministro degli Esteri in due governi di fila, uno di segno opposto all’altro, Franza o Spagna eccetera, e che non ce lo vuoi fare un pensierino sul piazzarsi a prescindere? Ci hai preso gusto, a viaggiare a due metri da terra in compagnia delle famose “relazioni” in cui si sostanzia l’indefinibile ma palpabilissimo Potere di cui sopra. Non si può tornare indietro.

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Giuseppe Conte e Luigi Di Maio

Faceva il bibitaro poco più d’una decina di anni fa, anno più anno meno. Beh, questo non è un argomento contra. La democrazia dovrebbe servire precisamente a elevare individui di umile condizione agli scranni più importanti della Repubblica. O quanto meno così consta ai fessi che ci credono, tipo chi scrive. Furbi e fessi, l’eterna lezione del saggio Prezzolini, sperando che qualcuno si ricordi chi era. La furbizia non è astuzia: l’astuto non si fa sgamare, mentre il furbo, alla Giggino, ce l’ha scritto in faccia che ha ideato una purissima operazione di palazzo, tattica, tatticissima, pur di garantirsi la sistemazione. Non dandosi neanche molta pena, probabilmente, di dover passare per la lotteria delle urne. Tanto, si sa, una maniera per spremere dalla parata elettorale, se non proprio un’elezione in collegio sicuro, come minimo una nomina in un qualche apparato, istituzione o istituto alla bisogna (nel suo caso, chissà, pure di livello internazionale), la si trova. Lui ha capito come funziona la sceneggiata: paroloni vuoti di contenuti (e più si ripete il mantra “contenuti”, nel presentare i contenitori, meno contenuti ci sono), asserzioni di principio a gogo, e ultimo ma non ultimo, lode sia all’immortale spirito della Diccì, scoprire la bontà intrinseca della Maggioranza. Sia chiaro: interessa niente, quale maggioranza. Basta che sia maggioranza. E la maggioranza, nel nostro Paese – chiamarlo Nazione pare francamente eccessivo – la si trova sistematicamente dalla parte di chi detiene le chiavi della limousine impazzita, e con un motore da utilitaria scassata, nota come Occidente. Sapete, no?, è più che sufficiente dirsi euro-atlantisti e voilà, magicamente si aprono porte, portoncini e a volte, per taluni, cioè per i più lacchè, anche dei bei portoni.

L’incoerenza, il tradimento, il voltagabbanismo, sono il meno. La politica, come la vita, è un’arte. E l’arte non può geometrizzarsi nella coerenza dei concetti. La politica è sangue, merda e molto, molto narcisismo. Esattamente come la vita, sempre che tu voglia ascendere, ovvero se sei ambizioso, se vuoi farti largo arraffando più potere che puoi. La differenza sta nel quanto, nel come, nella misura. Nello stile. Un conto è ripudiare tutto quel che sei stato, un altro è adeguare il bagaglio di princìpi-base alla realtà che scorre. Detto altrimenti: un conto è sporcarsi le mani, un altro è grufolare nella melma. La politica, da sempre, si fa anche e soprattutto come la fa Di Maio, poche storie. La politica come agenzia di collocamento con superiori mezzi, si capisce. Politica come mediocrità al quadrato. Politica in minuscolo, come machiavellismo senza Machiavelli, il quale ci scuserà se lo citiamo, lui che, quando escogitava nefandezze borgiane, aveva in testa la Roma di Tito Livio, non il terzo mandato di affamati ex apri-scatolette di tonno.

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