Del seppur tiepido giubilo che alla fine dello scorso anno aveva accolto Donald Trump Jr., figlio maggiore del presidente degli Stati Uniti, non è rimasto nulla in Groenlandia. A breve anche Usha Vance, la moglie del vicepresidente J.D. Vance, si recherà sull’isola risucchiata improvvisamente al centro della competizione globale e il primo ministro Múte B Egede ha già parlato di “interferenza straniera” chiedendo alla comunità internazionale di prendere posizioni a riguardo. Per molti il ruolo di Trump jr. prima e di Usha Vance poi non è chiaro, ma la sistematica sovversione delle regole, anche formali, della politica estera operata da Trump da quando è diventato presidente fa pensare che la loro presenza sia direttamente funzionale all’ossessione del tycoon per un territorio che ha definito “vitale per la sicurezza nazionale”.

L’8 dicembre scorso il Trump Force One, l’aereo privato della famiglia Trump, era atterrato sulla pista d’atterraggio scavata nel ghiaccio di Nuuk, la capitale di appena 18mila abitanti di quest’immenso quanto remoto territorio. Cosa ci facesse allora la persona più fidata di colui che sarebbe diventato l’inquilino della Casa Bianca era sicuramente meno chiaro rispetto ad oggi. Perché nel frattempo Donald Trump ha puntato il mirino dei suoi affari, e di conseguenza degli interessi strategici degli Stati Uniti, su ciò che potrebbe affiorare dal ghiaccio della Groenlandia nel corso dei prossimi decenni, complice l’aumento delle temperature: terre rare già fondamentali per le tecnologie di oggi e indispensabili per garantirsi la supremazia mondiale domani. A dicembre la figura di Trump Jr. venne probabilmente malinterpretata, anche perché faceva comodo alla Groenalndia. In quello stesso periodo Nuuk inaugurava nuove rotte per i voli turistici di alcune delle maggiori compagnie mondiali – anche American Airlines – che porteranno un grande flusso di turisti e di capitali stranieri aprendo un’isola così remota al resto del mondo. In quell’ottica l’interessamento statunitense pareva una manna dal cielo. Ma dopo una sequela di dichiarazioni in cui il presidente Trump ha affermato di volersi riprendere la Groenlandia “in un modo o nell’altro” perché la ritiene vitale per garantire la sicurezza internazionale degli Stati Uniti, il vento è cambiato. Nel mezzo, in groenlandesi si sono recati alle urne per le elezioni più importanti della loro storia. Anche se tutti i partiti in corsa sostenevano l’indipendenza dalla Danimarca – il tema più caro alla popolazione – a vincere sono stati i sostenitori di un percorso più graduale: molti osservatori concordano sul fatto che l’ombra di Trump possa aver spinto gli elettori a optare per un’indipendenza graduale, dal momento che restare soli di fronte alle ambizioni imperialiste del tycoon avrebbe potuto comportare rischi maggiori.

L’insofferenza verso gli Stati Uniti è diventata manifesta quando è stato reso noto il l’imminente arrivo sull’isola di Usha Vance, uscita da tempo dal cono d’ombra sofferto in passato – quando due anni fa Trump annunciò Vance come vice nella corsa alle presidenziali nessuno la conosceva. Il primo ministro della Groenlandia, Múte B Egede, ha chiesto alla comunità internazionale di intervenire accusando Washington di "interferenza straniera". La visita di Usha Vance, insieme al consigliere per la sicurezza nazionale Mike Waltz, non infatti arriva in un momento qualsiasi: fra i partiti groenlandesi sono in corso le trattative per formare una coalizione dopo le elezioni. E, ancora più importante, dopo che il partito più trumpiano e filo-statunitense Naleraq, arrivato secondo alle urne, sembrerebbe aver abbandonato i negoziati. L’ipotesi di aver perso una gamba interna a sostegno delle proprie rivendicazioni potrebbe aver indotto Trump a inviare qualcuno per sondare la situazione in maniera informale. E quale persona migliore, dopo Trump Jr., di una figura conciliante come Usha Vance, che solo poche settimane fa era a Torino in qualità di capodelegazione statunitense per le Special Olympics? Quanto di più apparentemente lontano da una figura a rischio di destabilizzare l’ambiente interno, forse. O forse la prova – la seconda, a confermare un metodo – che i familiari del presidente e del vicepresidente degli Stati Uniti abbiano una funzione reale, che i groenlandesi hanno compreso. È l’inizio del “familismo diplomatico” di Trump?
