James David Vance è più pericoloso di Trump. Se il leader dei Repubblicani è in grado di schivare i proiettili come Neo di Matrix, J. D. Vance sembra che Matrix, una realtà completamente nuova, possa costruirla davvero. È più o meno questa la sintesi di due giorni di analisi e articoli allarmistici sul nuovo Maga colto, laureato all’Ohio State University e poi, una seconda volta, in legge a Yale. E se Trump, per i dem, è Hitler, J.D. Vance dovrebbe essere, a rigore, Goebbels, soprattutto grazie a un suo libro del 2016, Elegia americana, traduzione impropria di Hillbilly Elegy: A Memoir of a Family and Culture in Crisis, l’elegia degli zoticoni. Il nostro Rasputin occhi chiari, ex marine e un esempio di politico serio come ce ne sono pochi, è pericoloso soprattutto perché istituzionalmente impeccabile. Ha le sue idee, e le puoi criticare, ma parliamo di un politico, eletto nel 2021, che in appena tre anni è riuscito a collaborare a Capitol Hill con tutti, compresi i Dem più radicali, compreso Bernie Sanders, il rottweiler di Marx, o almeno il suo chihuahua. E ora toglie anche un altro argomento agli avversari: quello secondo cui i repubblicani non avrebbero cantori dell’America moderna.
Anche se qualcuno, vedi La Stampa, vedi qualche giornale straniero, ora ridimensiona notevolmente il suo romanzo-saggio, da cui Ron Howard ha tratto il suo film per Netflix pochi anni fa, definendo Elegia americana “un’opera stroncata dalla critica” (La Stampa, 16 luglio 2024), i più curiosi potranno andare su Google e vedere come venne definito, all’epoca, il libro di Vance. Qualche esempio: “La descrizione che fa Vance del mondo in cui è cresciuto è una lettura fondamentale in questo periodo storico” (New York Times) e, in Italia, “Non c’è dubbio: il ragazzo sa scrivere e sa di cosa parla” (Enrico Deaglio su Repubblica). Poi certo, diventando in pochi mesi un bestseller, anche grazie all’ascesa di Trump, venne criticato fortemente, tanto che altri due autori, Anthony Harkins e Meredith McCarroll, curarono un’antologia di critiche all’autore: Appalachian Reckoning: A Region Responds to Hillbilly Elegy (2019). Poco male, Elegia americana è il piccolo capolavoro che dovreste leggere per capire quello che è successo all’America profonda e ciò che accadrà da qui a qualche anno.
Il libro parla dei bifolchi dell’Appalachia, delle persone che Vance ha conosciuto, della sua famiglia, dove a comandare sono droghe, violenza e alienazione. È un’autobiografia e in parte questo è il motivo del successo. Non è un romanzo allegorico, un manifesto, ma una diagnosi, anche una vivisezione da medico legale. Vance prende la vita dei suoi cari, che è la vita della classe operaia bianca statunitense, degli esclusi dal grande gioco della politica nel Ventunesimo secolo, e la rende centrale, dopo anni di indifferenza. È una vita che non lascia scampo e sarà sua nonna ad aiutarlo a superare molte delle difficoltà che si incontrano in una comunità di individui senza aspirazione. Sua nonna, cioè la fragilità americana in persona, donna, anziana, bianca, povera. Normale che molti americani si siano rivisti in questa storia e abbiano identificato Trump con un possibile alfiere dei loro diritti, diritti che – difficile da crederci in un mondo che associa il povero bianco al pericoloso nemico della società – coincidono con la pura essenza della vita: libertà, stabilità, lavoro, felicità, famiglia. Nonostante al tempo Vance avesse in più di un’occasione criticato fortemente Trump, prima di diventare un trumpiano duro e intransigente. Quando Trump vinse le elezioni il filosofo di sinistra Franco (Bifo) Berardi parlò proprio del senso di umiliazione provato dalla classe operaia bianca, che si vedeva rubare il lavoro dagli immigrati e le lotte dai gruppi per i diritti civili. Berardi ne parlava come di una reazione naturale di stampo marxiano (la stessa che alimenterà l’odio tra irlandesi, neri e cinesi nell’America del secondo Ottocento), ma Vance ne dà una lettura dall’interno, meno intellettuale e più viscerale: i bianchi della classe povera sono pessimisti, perché si sentono isolati, non si riconoscono più nel mondo in cui vivono e affrontano una crisi della virilità tale da minare anche le strutture più solide della comunità, come la famiglia.
Soprattutto, ed è questo il centro del libro, si parla di deresponsabilizzazione, la totale mancanza di controllo sulla propria vita, perché non si riesce a comprenderla, perché ci sfugge, perché è costantemente psicanalizzata da politici usciti da università per miliardari e da studenti figli di quei politici, o di notai, o di avvocati, o di docenti ben pagati. Un mondo che si accampa per tutte le vittime del mondo tranne che per loro. Un mondo dove persino gli avversari politici che un tempo si dicevano marxisti e dalla parte del proletariato, preferiscono occuparsi di altro. Ecco chi è J. D. Vance. Un uomo pessimista che ha ricostruito la sua identità a partire dalle sue radici, operando in modo opposto a ciò che oggi le parti più progressiste della società chiedono agli individui: non aprendosi, ma scoprendosi. Quello che accadrà con Trump è difficile a dirsi. C’è chi parla di una catastrofe totalitaria, difficile a credersi. L’allarmismo è più un’arma della propaganda che una storia verosimile da raccontare a intellettuali e analisti. Ma una cosa è certa: quella classe bistrattata, odiata, moralizzata senza averla vissuta, la classe dei cattivi americani, pro armi, religiosi, magari bigotti, complottisti, tornerà a sentirsi rappresentata e, per questo, parte del mondo che fino a ieri li ha esclusi.