Trump è uno degli uomini più odiati sulla faccia della Terra. L’attentatore Thomas Crooks doveva odiarlo parecchio, per trasformarsi in cecchino e avere, dal suo punto di vista, la sfortuna di mancarlo d’un soffio. Un odio, d’altronde, condiviso da centinaia di milioni di persone, americani e non, che proiettano su The Donald tutti i mali possibili: sessista, razzista, negazionista climatico, fascista, nazista e via liquidando. D’altra parte, neppure i suoi sostenitori odiano di meno, a loro volta proiettando la loro avversione per i detestati liberal affetti da wokismo in teorie del complotto basate su convinzioni tanto legittime quanto autorassicuranti. All’indomani dell’iconica immagine del candidato repubblicano sanguinante che alza il pugno ed esorta alla lotta, si sprecano gli inviti e le accuse incrociate sul mettere da parte l’odio. Anche qui in Italia. La parola d’ordine è: odiare l’odio. Paradosso evidente, che rende quanto ipocrita sia il politicamente corretto nel presumere di voler bandire un sentimento umano, che in quanto tale è inestirpabile e trasversale. A scombinare il facile giochino di società trumpiani/anti-trumpiani – che per altro, nel confermarlo al centro della scena, favorisce il già favorito Trump – è una categoria elettoralmente vasta che negli Stati Uniti è stata battezzata, con involontaria ironia, “double haters”. Sono gli odiatori di entrambi i candidati, coloro che hanno buone ragioni per avversare sia il palazzinaro repubblicano (accusato di aver patrocinato l’assalto al Campidoglio tempio della democrazia Usa), sia il decrepito presidente democratico Joe Biden (reo di aver inanellato una serie di infamie, a cominciare dall’appoggio alla pulizia etnica di Israele). I sondaggi li stimano in una percentuale variabile fra il 14 (Npr-Pbs, 15 luglio) e il 25% (Pew Research, 16 giugno). Già da soli questi due dati si evince che, mano a mano che la campagna per le presidenziali avanza, la polarizzazione aumenta. Le sesquipedali gaffes di Biden e il tentato assassinio di Trump, poi, hanno fatto il resto. A maggior ragione, perciò, la fascia socialmente e politicamente eterogenea degli “anti-tutto” rimane decisiva. Specialmente, dicono gli esperti come Amy Walter del Cook Political Report (Pbs, 10 luglio), negli swinging states, gli Stati contendibili, come Michigan, Arizona, Georgia e altri, dove il vincitore non è annunciato e la partita tra i due sfidanti è appesa a un filo.
La stampa, imprecisa e sovente in malafede, classifica questi elettori come “indecisi”. In realtà non sono affatto indecisi. Anzi, rispetto alle ultime elezioni del 2020, sempre ancora più decisi a non votare nessuno dei due. Rappresentano un fenomeno ormai permanente nelle democrazie occidentali: la stabile ripugnanza per qualsiasi cosa sia prodotta, per dirla all’americana, dall’establishment. Si tratta di una fetta ormai consistente della cittadinanza che non solo, come si dice pudicamente, non si sente “rappresentata” dal ceto politico autoreferenziale, ma ha maturato il radicato convincimento che le istituzioni, lo Stato, l’intero “sistema” siano diventati il nemico. È un odio basico, che nelle frange più colte e avvertite sale di livello e muta in disprezzo. E accomuna in un senso di rigetto declinazioni diverse, ognuna con i suoi totem e tabù: a sinistra, chi si dice critico del capitalismo, filo-palestinese, pacifista, anti-razzista e anti-fascista non può accettare il sostanziale quietismo ultra-moderato di un Biden (o in Francia di un Macron, o in Italia del Pd, al netto della tentata ricalibratura di una pur non trascinante Schlein); a destra, chi non ama gli estremismi verbali e gli eccessi di spregiudicatezza di un Trump (piuttosto che, per dire, di un Salvini), oppure semplicemente coltiva una regolare e apatica indifferenza alla politica tout court, reagisce con ripulsa quando vede i bulli di turno farla da protagonisti.
Questo, almeno, fino all’altro giorno. Perché ci vuol poco a capire che il Trump uscito da leone da un omicidio sfiorato è più attrattivo per quella porzione di double haters che erano potenzialmente già più propensi, nel gioco della torre, a preferire lui a Biden. E non tanto perché chi prima lo aborriva adesso si farebbe cogliere da un moto di empatia verso la vittima, ma perché la violenza fa aumentare l’astio verso la controparte della vittima. Non è difficile immaginarsi un repubblicano non trumpiano, finora posizionato sull’astensionismo, simpatizzare ora per Trump. Visto dalla visuale di Biden, poi, il guaio è doppio. Perché non è detto che tutto il mondo alla sua sinistra troverebbe oggi, davanti a un Trump potenziato dall’orecchio impallinato, il motivo sufficiente per far quadrato intorno a un candidato debole come lui, Sleepy Joe. Un elettore arabo-americano del Michigan o un lumpenproletario di New York aspirerebbero invece a un’alternativa in grado di battersi, non una salma ambulante. Davanti a una forza in irresistibile ascesa (quanto irresistibile, in realtà, lo diranno gli ultimi mesi di lotta elettorale), soltanto una personalità combattiva, anzi per l’esattezza con gli attributi da crociato, avrebbe una chance di riuscire nell’ardua impresa di chiamare a raccolta non, ripetiamo, generici indecisi, ma veri e propri dissidenti. Morale. Nella “democrazia” che moraleggia contro l’odio, il quale piaccia o no è il fondo selvaggio che anima il conflitto (e che non può essere sublimato tramite esorcismo o per legge, altrimenti poi spurga fuori il frustrato Crooks di turno), l’ago della bilancia alle urne è in mano proprio agli odiatori. Totali, per giunta. O per meglio dire, a coloro che per repulsione emotiva o rifiuto razionale, o tutt’e due, sono sempre meno disposti ad abbassarsi all’avvilente ricatto su cui si regge il semplicistico sistema binario, roba da bambini di tre anni, detto bipolarismo o bipartitismo: la sindrome del meno peggio.