Solo la scorsa settimana la Corte d'Appello di Brescia ha confermato l'ergastolo per Olindo Romano e Rosa Bazzi, colpevoli della strage di Erba, rifiutando di riaprire il processo, come da richiesta della difesa dei due. Difesa dei due fomentata, negli ultimi anni, dal martellante lavorio de Le Iene che, spesso e volentieri, hanno dedicato lunghissimi speciali al caso per instillare nella pubblica opinione il dubbio che il vero assassino (o i veri assassini) fosse ancora a piede libero, mentre una coppia di innocenti con la quinta elementare stesse marcendo in cella. La corrente innocentista è oramai uno squallido trend televisivo, i cui primi promotori sono proprio gli inviati in giacca e cravatta del programma di Davide Parenti. Una consuetidine molesta, a tratti perfin squallida, che vuole ribaltare il tavolo alla giustizia italiana semplicemente per accaparrarsi qualche punticino di share in più. Del resto, non è poi così difficile generare dubbi: nove volte e mezzo su dieci, le indagini sono regolarmente condotte con i piedi, entrambi sinistri. Il punto è che ora tale gretta corrente sembra aver intaccato pure Netflix. Da oggi, 16 luglio 2024, è infatti disponibile una nuova docu-serie crime che mira a ricostruire la triste vicenda di Yara Gambirasio, ritrovata senza vita abbandonata in un campo a morir di freddo e stenti dopo essere stata aggredita da ignoti (o meglio, da "Ignoto 1"). In carcere per questo brutale omicidio, dopo mesi di ricerche e indagini, è finito il muratore Massimo Bossetti, condannato all'ergastolo. Le cinque puntate della serie nella prima parte lo inchiodano come mostro, seguendo il racconto che i media dipingevano al tempo di lui e della moglie Marita. Poi, tentano di far scricchiolare ogni certezza acquisita dallo spettatore, sibillinando dubbi sulla effettiva colpevolezza dell'uomo e occhieggiando altre piste possibili, mai (o mal) seguite dagli inquierenti per motivi dai contorni foschi. Evidenziamo, dunque, un errore già nel titolo: la serie si chiama "Il Caso Yara". Ma in realtà resta tutta concentrata sopra "Il Caso Massimo". Un povero innocente costretto al gabbio senza un perché, o meglio, perché tutti avevano fretta di incriminare qualcuno e lasciarsi alle spalle l'incresciosa questione. Incresciosa questione che più di una figuraccia era già valsa alle autorità "competenti". Sia come sia, troviamo estenuante questo continuo tentativo di intortare la pubblica opinione con teorie innocentiste che stanno in piedi alla bell'e meglio mentre a chi non c'è più viene sostanzialmente impedito di riposare in pace. Da oggi, pure in mondovisione.
Prodotta da Quarantadue, la stessa che ha realizzato la controversa ma apprezzatissima 'Sanpa', 'Il Caso Yara' ha una regia molto simile alla serie precedente. Tant'è che ci si aspetterebbe di vedere Vincenzo Muccioli spuntar fuori in jeep tra le villette di Brembate di Sopra. Lo stesso vale per le musiche, che siano tristi o tensive. Un copia e incolla riuscito così e così, ma questo non è certo il primo dei problemi. Non nascondiamoci dietro a un dito: le serie true crime sono appassionanti e tutti abbiamo apprezzato, per esempio, il sublime podcast "Dove Nessuno Guarda" sulla morte di Elisa Claps scritto e narrato da Pablo Trincia. Siamo forse sciacalli per questo? No, non sempre. Per esempio, nel caso di Trincia, i parenti della vittima sono stati ben felici di parlare, di partecipare, di dare il loro contributo al progetto. I genitori di Yara, come riporta la stessa serie Netflix, si sono da sempre "sentiti violentati dal morboso e massivo interesse mediatico che si era creato intorno alla loro famiglia e al loro lutto. Non hanno mai spicciato verbo in pubblico - non lo fanno nemmeno oggi - se non per lanciare un appello in tv, quando la figlioletta 13enne risultava ancora scomparsa. Sentire le voci di Fulvio e Maura Gambirasio, attinte dagli atti del processo, distrutte dal dolore durante i mesi di ricerche della loro piccola è brutale, dalle parti della violenza. "Hanno scelto il riserbo", specifica la serie prima dei titoli di coda dell'ultimo episodio. Ossia dopo averci fatto sentire ogni secondo del loro infinito dolore.
"Il Caso Yara" punta il dito contro la bramosia dei giornalisti verso i dettagli più sordidi della vicenda. E lo punta dimenticando di guardarsi allo specchio. Qui gli autori Gianluca Neri, Carlo Gabardini ed Elena Grillone non stanno facendo niente di diverso. O di più meritorio. Solo, lo stann facendo quattordici anni più tardi. E per quale motivo? Per provare a scagionare Massimo Bossetti. Non c'è voice over che lo dica chiaramente, perché nessuno sano di zucca si prenderebbe una responsabilità del genere, ma gli intervistati prescelti parlano, lasciano intendere che ci sia ancora molto da chiarire riguardo alla presunta (?) colpevolezza del muratore bergamasco condannato all'ergastolo. Non siamo certo giudici, ma, da semplici e umili spettatori, ci poniamo una domanda (sempre la stessa): se Bossetti fosse davvero estraneo ai fatti, come ci sarebbe mai potuto finire il suo DNA sugli indumenti intimi della vittima? La serie prova a dare una risposta coinvolgendo diversi scienziati e genetisti, ingarbugliandosi in una sequela di dibattimenti settoriali e complessi. In sostanza, ci sono due correnti di pensiero: una ritiene che la tiplogia di DNA rinvenuta sia sufficiente per individuare oltre ogni ragionevole dubbio una persona, la seconda, invece, no. Bossetti ha avuto, in pratica, la sfortuna di essere esaminato dal primo sottoinsieme di topi da laboratorio. Altrimenti, forse, sarebbe andata diversamente. Eh, però la verità deve necessariamente essere una, non quattordici insieme. E la scienza è materia esatta, su per giù, non roba scritta sull'acqua.
Nonostante diverse lungaggini nello sviluppo (sì, lo abbiamo capito quanto e come i giornalisti siano una pessima razza. Compresa, non senza stupore, Licia Colò), "Il Caso Yara" potrà essere pure considerato "d'intrattenimento", buono da seguire durante qualche torrida serata estiva. Allo stesso tempo, il peccato originale, specie della seconda parte degli episodi, quella con protagonista Massimo Bossetti che parla dal carcere, è il tentativo di forzare la nascita di una certa empatia nei riguardi dell'assassino. Povero cristo, da quando viene sbattuto in cella gliene capitano di ogni: scopre che la sua famiglia gli mente da sempre, pure la moglie tiene più di un inconfessabile segreto e via dicendo. Ogni certezza di vita gli crolla sulla collottola, mentre lui, anima sciagurata, si trova costretto in una cella di isolamento, con gli inquierenti brutti e cattivi che gliene fanno di tutti i colori pur di costringerlo a confessare un omicidio per cui lui si professa, da sempre, innocente. "Il Favola" lo chiamavano i colleghi di cantiere.
Della salute mentale, dei traumi emotivi di Massimo Bossetti, sinceramente, importa ben poco. Non è lui il protagonista di questa storia, ma una ragazza di tredici anni, Yara, che ha perso la vita senza un senso, con ogni probabilità rapita sulla strada dalla palestra verso casa sua, in una sera d'inverno nel 2010. Oggi, oramai da fin troppo tempo in realtà, la moda, il trend è quello di andare a rimestare nel passato per tentare di sovvertire sentenze già scritte. Non perché a qualcuno interessi davvero della vittima, ma solo perché così la gente guarda la puntata, la serie, attirata dalle possibili, sconvolgenti novità che potrebbero rovesciare un triste caso di cronaca già risolto 14 anni orsono. In buona sostanza, "Il Caso Yara" esiste perché il circo, lo sciacallaggio messo in piedi da "Le Iene" negli ultimi anni, risoltosi poi con una sonora batosta definitiva ovverosia in niente, non ci ha insegnato nulla. Anzi, forse sì. C'è ancora una speranza: possiamo sempre scegliere cosa guardare, in tv come in streaming. Magari, almeno questa volta, fate il vostro gioco. Non il loro. Perché questo non è un film.