Seconda chance. Trovate in rete il bellissimo discorso di Joaquin Phoenix alla notte degli Oscar del 2020. Ascoltatelo se vi va. Forse vi renderete conto della profonda differenza, nella cultura del lavoro, tra noi e gli americani (mi piacerebbe dire angloamericani, ma in verità non è così: l’Inghilterra conserva parte dell’Ancien Regime che in Europa ha figliato gli assolutismi). Avere una seconda possibilità dopo uno sbaglio. Non vivere in un clima in cui a uno sbaglio possono conseguire disastri: sapere che l’umano è umano proprio perché sbaglia e che si cresce spesso proprio per errori. Sulla seconda chance è fondata tutta la mitologia del lavoro americano: “Fallite ancora, fallite meglio”. Non c’è biografia di un magnate in qualsiasi campo che non sia costellata di fallimenti, di cadute e rinascite. Certo: deve essere la società ad avere questa mentalità in cui il loser può essere un futuro winner. Da noi invece andiamo per scatoloni: qui ci mettiamo questo con la sua storia, qui quell’altro. Le conseguenze sono sotto gli occhi di tutti. Pur di non ammetterlo un nostro sbaglio, pur di non chiedere scusa, pur di non dire “sono umano” commettiamo azioni crudeli. Il ragionamento può valere per Antonello Venditti e le sue scuse trattenutissime dopo avere inveito contro una ragazza del pubblico, così come per tutti quelli che ci vanno di mezzo per gli errori dei propri boss, capi, uomini di potere o come volete chiamarli. Gli staff non sono più collaboratori, sono il cestino dove scaricare le proprie responsabilità. Lo abbiamo visto con il ministro Gennaro Sangiuliano, lo rivediamo con Jannik Sinner.
La narrazione del “team”, che ci era pervenuta dalla cultura americana, si sta sgretolando perché non ha mai davvero preso piede da noi, che restiamo sempre, un po’, profondamente fascisti e nazisti e che abbiamo, dentro, in fondo, nella fogna della nostra identità, una classifica dei ‘migliori’ e dei ‘peggiori’, dell’infallibilità, del superominismo. Sappiamo del post, sbagliato, del ministero della cultura, in cui si annunciava la nascita di un comitato per celebrare “i due secoli e mezzo” della nascita di Napoli, in luogo dei dovuti 2.500 anni. Il social media manager è stato rimosso. Ma, al contempo, il ministro ha tenuto a precisare che non è stato licenziato, solo messo da un’altra parte, con la frase: “Capita a tutti di sbagliare”. Bene, giusto. Ma se a tutti capita di sbagliare perché rimuoverlo e destinarlo ad altro compito? È come dire: tutti possono sbagliare, ma lui sbaglia meglio, mettiamolo dove non può fare danno. La colpa di questa visione superoministica del lavoro (tranquilli, presto l’errore umano sarà sostituito dall’errore dell’itelligenza artificiale) non è solo del ministro, ci mancherebbe: anche il ministro può sbagliare (perché non destinarlo ad altra mansione allora?). Quello che fa specie è che a perculare l’errore di un povero social media manager sia stata proprio la sinistra, che oramai, nella furia ideologica di una lotta politica sempre più infima non si è curata dell’aspetto umano di un lavoratore quando era chiaro che sarebbe stato il povero dipendente a rimetterci e non il ministro. Non immaginavano che Sangiuliano se la sarebbe presa col social media manager? Altro caso: Jannik Sinner. Ci fu un tempo in cui dalle star all’ultimo dei raccattapalle lo sport era un evento corale: dietro ogni campione c’era uno staff. Il massaggiatore di Sinner, Giacomo Naldi, reo di essersi tagliato un dito con un tagliacalli (calli di Sinner) e di essersi disinfettato con uno spray contenente una quantità minima di Clostebol, una sostanza dopante, è stato licenziato su due piedi insieme al preparatore atletico Umberto Ferrara. Bello staff. Bel team. Ci sono soldi in gioco. Tanti soldi. E la velocità dei soldi, nella quale viviamo immersi, non dà tempo per la riflessione sull’umano, sull’umanità.
È stato tutto un dichiarare: “Siamo attentissimi”. Io ricordo il classico esempio di Karl Popper: puoi fare le scale di casa tua per trent’anni di seguito, le saprai a memoria, le potrai fare anche al buio, con gli occhi chiusi; potrà sempre capitare di inciampare sull’ultimo gradino. Era una bellissima metafora sulla mente umana e sulla nostra condizione. Riflessioni che oggi non si possono più fare. Il potere, il denaro, la prestazione, ci richiedono, giocoforza, una mancanza di umiltà. Ci impongono la superbia. Vince il più superbo, vince chi si loda e si sbroda. Understatement e lealtà sono scomparsi dalla nostra riflessione. Niente seconde chance. Nella scrittura esiste un piccolo e immenso evento che rappresenta tutto questo: si chiama refuso. Dai refusi riconosci le professorine e i professorini nazisti, che non badano al contenuto di un testo ma all’errore grammaticale (neanche sospettano che ogni vero scrittore la grammatica se la inventa da sé). Karl Kraus lo scrisse una volta per tutte, elevando il refuso, questo piccolo e magnifico errore umano a simbolo della nostra esistenza: “L’Apocalisse inizierà con un refuso”. Ecco. Non vedo l’ora che l’Apocalisse cominci.