Martedì Riad è diventata un gigantesco tavolo d’affari, ai cui capi erano seduti Donald Trump e Mohammed bin Salman. Insieme a loro, decine di ospiti tra banchieri, industriali e amministratori delegati delle più importanti aziende mondiali. Un vertice imponente, che racconta di come il business si sia definitivamente sbarazzato della politica, anche dal punto di vista mediatico. Il presidente statunitense e il sovrano saudita hanno raggiunto quella che hanno definito una “partnership economica strategica”: in pratica, un accordo per aprire i rubinetti della monarchia del Golfo e lasciare che centinaia miliardi di dollari fluiscano verso Washington sotto forma di investimenti. Su tutti armi, risorse energetiche e intelligenza artificiale. Questi sono i termini del contratto che sancisce il definitivo “inchino” di Donald Trump all’Arabia Saudita, consentendogli di portare negli Stati Uniti quegli investimenti promessi in campagna elettorale.

Secondo quanto è trapelato dal vertice sarebbero stati conclusi circa 145 accordi commerciali dal valore complessivo di 300 miliardi di dollari, ma i numeri sparati dall’amministrazione Trump arrivano anche al doppio. La Casa Bianca ha parlato del più grande accordo sulle armi mai raggiunto tra i due paesi, pari a 142 miliardi di dollari, che include missili e addestramento. Poi minerali critici, infrastrutture, aerei passeggeri e un’attenzione particolare all’intelligenza artificiale: “la saudita DataVolt investirà 20 miliardi di dollari in data center negli Usa; Google DataVolt, Oracle Salesforce, AMD e Uber investiranno 80 miliardi in tecnologie trasformative in entrambi i Paesi", si legge nel comunicato della Casa Bianca. Ma, come detto, Trump era solo l’ospite d’onore al cui seguito ha sfilato l’Occidente tutto: dal solito Elon Musk a Sam Altman – ad di OpenAi – e con lui i vertici di tutte le maggiori aziende tecnologiche, da Alphabet a Nvidia. E a questo proposito è importantissimo l’accordo con il quale Trump intende far diventare Arabia Saudita ed emirati Arabi Uniti clienti privilegiati per l’export di semiconduttori prodotti negli Stati Uniti giocando a viso aperto con la Cina: “Anche per questo – scrive il Corriere della Sera – Riad sta prendendo tempo prima di aderire formalmente ai Brics (Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica; e tra i nuovi membri gli Emirati), nonostante abbia partecipato a un incontro del gruppo la scorsa settimana in Brasile: Mbs non vuole irritare Trump, ma ha bisogno della Cina, il suo più grande cliente per il petrolio”.

C’era poi anche John Elkann (sì, lo stesso che è il padrone di giornali progessisti come La Stampa e La Repubblica, non certo schierati dalla parte di The Donald, e in teoria nemmeno dei sauditi). Che il leader di Stellantis si sia “convertito al trumpismo?”, si chiede La Verità. I rapporti con il presidente Usa non sono nati certo in Arabia Saudita ma affondano le radici almeno al giorno del giuramento del tycoon. Elkann fu tra i finanziatori della cerimonia con un milione di euro, insieme a moltissimi industriali di tutto il mondo. Poi un nuovo avvicinamento per parlare di dazi, che per Stellantis hanno comunque picchiato duro soprattutto tra Canada e Messico. Ora, oltre al tycoon l’attenzione è anche per Bin Salman, il cui fondo sovrano Pif è coinvolto in investimenti a Torino tra il nuovo Hotel Hilton, le Atp Finals di tennis e gli impianti sciistici alpini: “Il new deal è ormai chiaro: Trump è buono, Bin Salman pure se porta soldi. La morte di Jamal Kashoggi? Dimenticata. Le frustate pubbliche? Usanze locali”, provoca La Verità.