Piercamillo Davigo è antipatico. Obiettivamente. O meglio: non fa nulla per rendersi simpatico. Nella società dello spettacolo, questo è un handicap non da poco. L’ex pubblico ministero di Mani Pulite ha avuto una carriera di pregio (è arrivato a essere giudice cassazionista e togato nel Consiglio Superiore della Magistratura, oltre che presidente dell’Associazione Nazionale Magistrati), ha scritto libri alcuni dei quali di apprezzabile utilità (“In Italia violare la legge conviene. Vero!”, 2018), non é mai caduto nella tentazione della politica attiva (come il suo ex collega di pool, Antonio Di Pietro, senz’altro meglio in toga che in parlamento), ma è malvisto, a destra come anche a sinistra, per la sua nomea di manettaro, giustizialista, forcaiolo. In realtà, grattando via la superficie di una sua certa efferatezza verbale, Davigo è il classico giudice legge&ordine, che spesso e volentieri cita la durezza della legislazione statunitense, e che vede la giustizia esclusivamente dal punto d’osservazione del suo ruolo. Il che, in Italia, attira l’accusa di persecutore, mentre nella sostanza lui sognerebbe – vasto programma – l’eliminazione di ogni anfratto e riparo per gli impuniti. Altro che “toga rossa”: Davigo, come scriveva qualche tempo fa il miglior cronista giudiziario italiano, Luigi Ferrarella, è “essenzialmente un uomo d’ordine” (Corriere della Sera, 21 giugno 2023). Uno che fino agli anni ’70 la sinistra avrebbe considerato suppergiù un nemico di classe. Negli Usa, forse sarebbe di destra.
Fu la sistemica corruzione scoperchiata nell’inchiesta di Tangentopoli a rovesciare il metro di giudizio, con la destra a farsi “garantista” e la sinistra, almeno negli anni ’90, a tifare magistratura. Davigo è l’erede di questa polemica che squassa l’Italia da trent’anni, nella parte non soltanto del difensore di quella pagina così controversa ma anche, diciamo così, del legalitario senza remore, senza freni inibitori. È questa incontinenza di linguaggio, questa allergia ai toni diplomatici che lo rende, a molti, odioso. Perché ad esempio, quando se ne uscì con la frase, in sé inquietante, “non esistono innocenti, solo colpevoli non ancora scoperti”, si riferiva al vero e proprio sistema di mazzette negli appalti, in cui effettivamente era difficile trovare uno che non stesse al gioco, perché la filiera di denaro da grassare si sarebbe potuta interrompere (lo spiegò ad Aldo Cazzullo in un’intervista nel 2016, in cui aggiunse, fra l’altro, che nel nostro Paese hanno vinto i corrotti, e se c’è qualcuno in buona fede che pensa che abbiano vinto gli onesti, cioè che siamo diventati finlandesi, questo qualcuno è pregato di alzare la mano). All’ingrosso, le sue posizioni, se esaminate nel contenuto, non sono così horror come vengono spacciate da una pubblicistica che ci propina da decenni la storia della “guerra fra politica e magistrati”. Una guerra che non esiste, quanto meno da parte dei secondi, intesi come categoria. Altrimenti bisognerebbe che una buona volta saltassero fuori le evidenze di reati eversivi, come l’attentato a organi costituzionali (accusa che la Procura di Brescia, nei primi Duemila, cercò di provare a carico di Davigo, smentita sul nascere da un’archiviazione perché il primo governo Berlusconi cadde per l’appoggio venuto meno dalla Lega, non per un avviso di garanzia). Semmai, c’è stata una politica che ha voluto e vuole difendersi dai processi. O entrando a gamba tesa nei codici, come ai bei tempi di Berlusconi imperans con le leggi ad personam, oppure, più semplicemente, evocando complotti regolarmente lasciati a mezz’aria (come di recente ha sciaguratamente fatto persino un Crosetto, di solito equilibrato).
È il tratto umanamente freddo, truce, diciamo pure insensibile, a far sì che Davigo sia divenuto un’icona tendenzialmente negativa. Proprio l’altro giorno, ospite da Fedez nel podcast Mucchio Selvaggio, parlando del suicidio di Raul Gardini il suo commento è stato di una disarmante glacialità: “se uno decide di suicidarsi, lo perdi come fonte di informazione”. Brividi lungo la schiena. Dev’esserci, nel modo di ragionare e di comunicare del giudice oggi in pensione, una coazione all’analisi spersonalizzata, priva di empatia, che lo porta immancabilmente a spiegarsi come farebbe in una riunione investigativa tra colleghi. È come se Davigo non sapesse esprimersi se non nella forma mentis del magistrato in servizio permanente effettivo. Ora, questo difetto caratteriale si volge in positivo, sul piano – importantissimo – del rispetto della legalità, se pensiamo che la sua condanna in primo grado per rivelazione di segreti d’ufficio (nel 2020, da membro del Csm mostrò ad altri componenti dei verbali sulla presunta “loggia Ungheria”) non è stata da lui contestata evocando trame o vendette, ma impugnandola nel merito, senza isteria. Come si dovrebbe sempre fare.
E come fece, per dire, un Giulio Andreotti, da cui non venne mai una singola parola di indiscriminato livore verso la magistratura in quanto tale, né contro chi lo giudicava. Un cittadino che abbia il senso della legge, anche qualora non credesse che sia davvero “uguale per tutti”, si comporta così. Non imbastendo la rituale cagnara vittimista a cui ormai siamo purtroppo abituati. Davigo, insomma, si disegna da sé più cattivo di quel che è. Ma quando sostiene che la tragedia vera della giustizia italiana è la lunghezza abnorme dei processi (a causa della prescrizione così come congegnata da noi, e malissimo rimaneggiata dalla riforma Cartabia, che sega i procedimenti con la tagliola, come fossero contratti in scadenza), non ha ragione: ha straragione. Mentre è quando si abbandona, con spirito inquisitoriale, a schiaffeggiare il debole e lasco trasporto per la caccia ai delinquenti (debole e lasco a meno che non si tratti di eclatanti casi di cronaca: lì, diventano tutti assatanati, per dimenticarsi tutto nel giro di poco), è quando si compiace nel far metaforicamente tintinnare le manette, è in questo suo stile crudo, e a volte crudele, che si fa del male con le sue stesse mani. Gli manca totalmente la piacioneria, e men che meno la bonomìa dipietresca. Ma forse meglio così, perché di piacioni, finti buoni, cattivi per copione e ambigui squartacapelli, ne abbiamo fin sopra i capelli.