Se ne è parlato per alcuni giorni all’inizio dell’anno, quando sono scoppiate le bombe, poi tutto è tornato nel silenzio. È proprio ciò che vuole la criminalità organizzata: lanciare un messaggio violento e tornare subito dopo nell’ombra, godendo degli effetti della paura suscitata. È quanto sta avvenendo, nuovamente, intorno al fenomeno della mafia foggiana, che è sicuramente la meno raccontata e conosciuta tra le organizzazioni del nostro Paese. Una sottovalutazione ingiustificata, complice in questi giorni l’attenzione mediatica catalizzata sul voto per il nuovo capo dello Stato, anche se in generale è un atteggiamento che si perpetua da molti anni. Una trascuratezza che ne ha favorito la crescita esponenziale, come ha testimoniato nel 2020 la relazione semestrale della Direzione Distrettuale Antimafia. Ora che tutto tace, proviamo a tenere una luce accesa su questa realtà attraverso Nello Trocchia, giornalista di inchiesta che lavora per il quotidiano Domani ma che da tempo racconta queste storie attraverso giornali, libri e tv e cerca, soprattutto, di non far calare l’attenzione su parti dell’Italia di cui la politica e le istituzioni sembrano non aver compreso l’agonia: “Ormai è lo Stato che tenta di infiltrarsi in territori che rimangono ancora controllati dal crimine organizzato e non viceversa. Ma purtroppo il livello di preparazione dei palazzi romani sulla mafia foggiana è parificabile alla mia conoscenza dell’hockey su ghiaccio: il nulla cosmico”.
Come mai la mafia foggiana, chiamata anche Quarta mafia, è stata così sottovalutata?
Siamo un Paese nel quale le organizzazioni criminali mafiose vengono affrontate quando ci sono dei delitti di sangue. La legislazione di contrasto alle mafie è nata soprattutto dopo le stragi e i delitti efferati. A differenza della criminalità comune, le mafie nascono, crescono e si alimentano grazie al rapporto con il mondo della politica e dell’imprenditoria. In più hanno una capacità economica consistente e nei momenti di crisi consentono di alimentare anche l’economia legale. Questo ha portato a un generale disinteresse.
Un quadro sconfortante.
Dentro questo quadro di disinteresse, la mafia foggiana, che è periferia del Paese, è assolutamente trascurata. Ma anche le mafie laziali intorno a Roma. Se è accaduto lì, senza costruire una vera risposta, perché avrebbero dovuto avere maggiore attenzione per la criminalità a Foggia? Nei palazzi del potere, dove si elaborano le leggi, dove si autogoverna la magistratura, al Quirinale al governo, non si sono accorti che lentamente ma inesorabilmente in certi territori sono cresciute mafie autoctone nel silenzio generale.
La mafia foggiana viene descritta dagli investigatori come “primitiva e rozza”. Eppure, sembra piuttosto pericolosa.
A noi piacciono le definizioni perché ci aiutano a capire. Prima di tutto bisogna distinguere. C’è la Società foggiana, che nasce alla fine degli anni ’70 come derivazione della Nuova camorra organizzata di Raffaele Cutolo. Poi ci sono altre batterie criminali mafiose, come la mafia garganica e la malavita cerignolana, ma sono gruppi distinti. Parliamo quindi di più mafie. In generale sono mafie primitive e feroci, senza dubbio. Usano spesso le bombe, ma anche la lupara bianca. Di certo non badano a logiche di silenzio, fanno rumore quando devono comunicare ad affiliati o alla comunità chi comanda il territorio. Inoltre, hanno rapporti con l’imprenditoria e i politici vicini o contigui. Inoltre, si presenta con un volto molto spietato perché è abituata ad assoggettare tutti i soggetti dell’arena democratica. Senza contare che è molto legata al territorio, dove continua a esercitare la privazione di libertà della piccola imprenditoria con il pagamento del pizzo.
Quindi, le bombe delle ultime settimane non sono una novità per quei territori.
Le mettono dagli anni ’80-’90 quando arrivano le prime risposte dello Stato. In quel periodo decisero di prendersi la città partendo dalle botteghe, per poi arrivare ai funerali con il pizzo sulle pompe funebri. Sono tutti soldi che servono per arricchirsi, ma anche per mantenere gli avvocati e le famiglie di chi finisce in carcere. È una mafia molto familistica, con pochissimi collaboratori di giustizia. Quella delle ultime settimane non è una risposta, ma la loro tradizionale condotta. È che a Roma sono convinti di rispondere alla mafia foggiana con un comunicato stampa. La politica nazionale non ci ha mai capito quasi nulla. C’è una audizione dell’allora questore di Foggia, Piernicola Silvis, che sbigottito dovette spiegare alla commissione parlamentare che la Sacra corona unita non c’entrava niente con la mafia foggiana. Era il 2015, non cento anni fa. E racconta benissimo il livello di preparazione dei palazzi romani sulla mafia foggiana, parificabile alla mia conoscenza dell’hockey su ghiaccio: il nulla cosmico.
Che significato hanno le ultime bombe che sono esplose?
Ogni anno, soprattutto all’inizio, si troveranno nelle cronache dei “fuochi d’artificio”, ma ogni bomba ha un significato diverso. Può essere indirizzata a chi non paga il pizzo, a un complice per segnalargli di trovare più soldi, a un altro soggetto per portarlo a mantenere i patti. Solitamente a inizio anno intimidiscono la città per dire: “Qui comandiamo noi e guai a ribellarsi”. In più, visto che molti capi sono in galera, è un modo per lanciare altri messaggi. Possono voler dire “non ci avete fermato”. Ma non solo. Anche “se noi siamo dentro, non siamo noi a fare queste cose”, oppure “adesso che siamo in carcere vedete che tutto continua e anche peggio?”. E poi dimostra che, nonostante i boss siano in galera, permane una organizzazione in grado di terrorizzare la città e fregarsene delle risposte dello Stato.
Ultimamente hai scritto di quanto la mafia foggiana sia permeata sul territorio. Puoi farci un esempio?
Una circostanza su tutte per capire Foggia, che è presente nella relazione di scioglimento del Comune. Lì è emerso che nella gestione della videosorveglianza avevano degli interessi gli stessi uomini legati al clan e che, quindi, in realtà non avevano nessun interesse a una maggiore accuratezza nel servizio. Questo fa capire quando la Società foggiana sia pervasiva e in grado di condizionare la macchina dei controlli, manovrandola.
Già nel 2009 hai scritto il libro “Federalismo Criminale. Viaggio nei comuni sciolti per mafia”. È cambiato qualcosa da allora?
Da allora rimane l’unico libro sul tema, al netto di qualche ricerca, a dimostrazione che di mafia non importa molto a nessuno. Tanto meno al governo nazionale o al Parlamento. Ci sono delle commissioni, ma sono diventate una specie di simulacro irrilevante. I Comuni sciolti per mafia sono una emergenza, che in un Paese normale sarebbero al centro delle politiche. È vero che si sospende il corso democratico, ma in Comuni dove i piani regolatori sono stati trovati a casa dei boss, in realtà la democrazia non ci può essere. La verità è che in questi luoghi il potere egemonico è della mafia e lo Stato prova a infiltrarsi, non il contrario. Il radicamento è quello mafioso. Poi c’è il grande tema della formazione dei commissari prefettizi.
Cosa intendi?
Che senza il contributo di manager comunali, dirigenti e funzionari non puoi fare nulla. Si è provato a intervenire, con la possibilità di spostare alcuni professionisti, ma sono provvedimenti sottoposti a ricorso amministrativo perché spesso non hai una sentenza di condanna e se un funzionario è indagato devi aspettare il terzo grado di giudizio. Con lo scioglimento di un Comune eviti che per 18-24 mesi ci sia una continuità nel governo criminale della città, solo che oltre a questo riesci a fare poco o nulla senza una vera capacità amministrativa e manageriale. Quando arriva la commissione prefettizia a gestire questi Comuni, spesso va lì due giorni a settimana. Come fa a trasformare un Comune in quelle condizioni? È molto complesso questo ragionamento, non si esaurisce tra democrazia e mafia. Il punto rimane uno: lo Stato tenta di infiltrarsi in territori che rimangono controllati dal crimine organizzato. Talvolta i Comuni vengono sciolti anche tre volte, per cui non è la mafia che si infiltra, ma lo Stato che tenta, inutilmente, di farlo.
Quanto è difficile fare il giornalista oggi in Italia se tratti certi temi?
Per anni sono stato freelance, ma fortunatamente ho sempre avuto una tutela legale. Da un anno ho un contratto giornalistico e quindi con le giuste garanzie. Ma prima ho vissuto di tutto: le minacce della camorra, le querele milionarie, le cause per diffamazione, il dileggio. Poi c’è chi passa i comunicati stampa o i portavoce della politica, che è un altro discorso. Noi giornalisti dobbiamo avere le notizie ed è un mestiere in perenne crisi. Perché ci sono blocchi di potere che non vogliono una informazione libera. Tra editoria impura, querele temerarie, cause civili che fungono da mordacchia, aggressioni, minacce, intimidazioni, siamo anche governati da una classe politica inadeguata. Per questo, il nostro è un mestiere sempre più complicato, soprattutto se si ha passione. Senza dimenticare che in un mercato iper-precarizzato l’orizzonte della professione non è certo roseo. E poi le persone spendono troppo poco per informarsi, dai giornali ai libri o sui siti. L’effetto è che le voci libere, se non sono sostenute, piano piano si spegneranno.