Se voleva sollevare un vespaio, la docuserie su Netflix “Le ultime ore di Mario Biondo”, ci è senz’altro riuscita. E non a caso è la più vista in Italia in questi giorni. Del resto, gli ingredienti c’erano tutti: un bel giovane siciliano di 31 anni, di professione cameraman, che da operatore all’Isola dei famosi spagnola conosce l’inviata del programma Raquel Sánchez Silva, se ne innamora e la sposa, ma dopo appena qualche mese, il 30 maggio 2013, viene trovato impiccato nella loro casa a Madrid, suggerendo nell’immediato l’ipotesi del suicidio. “Perché un trentunenne innamorato, felice e animato da una sanissima passione per il proprio lavoro (aveva appena ricevuto l'ok per la messa in onda di un format di suo conio sulla tv spagnola), si sarebbe dovuto ammazzare?”, si è chiesto Grazia Sambruna su MOW. Già, perché? La famiglia non ha mai creduto che si sia tolto la vita: “Non mi darò pace fin quando gli assassini di mio figlio non saranno in carcere”, ha detto la madre, Santina D’Alessandro. La moglie è stata sospettata, ma gli inquirenti iberici non hanno dubbi: Biondo si è suicidato. Nel 2022, il gip di Palermo, Nicola Aiello, pur definendo le indagini spagnole “sommarie e lacunose”, ha archiviato l’inchiesta italiana per limiti temporali, dovuti alla “distanza di tempo dai fatti”. La serie su Netflix sposa la tesi giudiziaria, e infatti la D’Alessandro, che vi compare, ne ha preso le distanze, intervenendo con un video, apparso sul canale Youtube del quotidiano El Mundo, in cui sostiene di essere stata “presa in giro e raggirata”. Le possibili incongruenze e omissioni del documentario emergono soprattutto se confrontate con lo speciale de Le Iene, a cura di Cristiano Pasca, andato in onda il 6 ottobre 2020 dopo altri due servizi sul tema. La versione sostenuta si evince fin dal titolo: “Un suicidio inspiegabile”. Mario Biondo non si sarebbe ammazzato, qualcuno lo avrebbe ucciso inscenando la finta impiccagione con la pashmina alla libreria del salotto.
Ma vediamo le più significative reazioni nella mediasfera di questi giorni. Sul quotidiano online Today, il 9 agosto l’opinionista Roberta Marchetta parte proprio dall’inchiesta delle Iene, bocciandola in toto. Pasca, infatti, si sarebbe concentrato “sui dubbi - o meglio sulle illazioni - dei Biondo, che da dieci anni puntano il dito contro la conduttrice spagnola, secondo loro ‘protetta’ dal suo Paese perché ‘influente’ e complice della morte del marito”, giungendo a “conclusioni approssimative e cieche”, con “deduzioni piene di pregiudizi”, fra cui “la certezza che Raquel c'entri qualcosa perché non era abbastanza addolorata al funerale del marito e una settimana dopo ha deciso di partire lo stesso per la vacanza a Formentera che avevano prenotato insieme”. Insomma, la “solita retorica del dolore”. Di più: “è stato un confezionamento della storia, servendo al pubblico il thriller perfetto”, una “teoria complottista che ancora oggi infanga Raquel Sànchez Silva”. La conclusione di Marchetta, positivamente sbalordita invece dagli “elementi ‘nuovi’” messi in luce dalla docuserie Netflix, è tranciante: “Tre autopsie hanno confermato il suicidio. Nessun indagato, zero condanne. Che Mario Biondo si è tolto la vita lo dicono le sentenze e lo dicono le prove. Si può arrivare a capire l'accanimento della famiglia, che vuole trovare un colpevole a tutti i costi pur di non vedere distruggersi l'immagine di un figlio o di un fratello - anche se qui si sfocia spesso nella diffamazione - ma Le Iene si dimostrano ancora una volta riprovevoli per aver fatto un racconto parziale, a tratti fazioso”.
Vanity Fair, con un articolo del 7 agosto, ha intervistato gli avvocati della famiglia di Mario Biondo, Fabio Falcone e Margherita Morrale. Il primo dichiara che la serie spagnola “dà un'impronta contraria rispetto al nostro percorso giudiziario, cosa che non mi stupisce visto che comunque è stata prodotta da Guillermo Gómez, ex manager di Raquel Sánchez Silva. Si sostiene l'ipotesi di una pratica di auto-asfissia, un gioco di autoerotismo spinto all'estremo, cosa che non è mai uscita negli atti giudiziari”. Secondo il legale, “gli elementi che si traggono dal fascicolo del Pubblico Ministero, ad avviso del giudice, smentiscono la tesi suicidaria e lasciano pensare che Mario Biondo fu ucciso da mano rimasta ignota e successivamente collocato in una posizione atta a simulare un suicidio”. Ancora più netta la Morrale: “Questo documentario, se così si può chiamare, non corrisponde alla realtà processuale che è emersa dagli atti giudiziari. Mario non era un assuntore di sostanze stupefacenti: il tossicologo che ha lavorato per conto della procura ha prelevato una ciocca dei capelli di Mario e non è stato rilevato nulla. Una forzatura, dunque, quella del film che vuole ritrarlo come un cocainomane abituale e incallito”. Quanto all'erotomania, continua l’avvocatessa, “anche quella non è dimostrabile: le uniche ricerche sui siti porno che Mario aveva fatto avevano per oggetto il nome della moglie, quasi avesse dei dubbi su di lei. Le ricerche apparse sul suo computer relative alla pratica dell'auto-asfissia sono tutte state fatte dopo la sua morte. In più, il telefonino non è stato mai consegnato alle autorità italiane”. Il documentario di Netflix, in ogni caso, “non aiuta. Ci sono cose che non tornano: dell'incidente autoerotico, prima di questa serie, ai magistrati non è mai stato detto nulla. Questa ipotesi è emersa in maniera giornalistica, in modo strumentale, per far passare Mario come un ragazzo dedito all'uso di droghe e dalla reputazione discutibile. In tutto questo tempo, fosse stato così, la vedova ne avrebbe parlato. E poi com'è che in un documentario, che esce dopo 10 anni dalla morte, si manda in onda la voce di due presunti dipendenti di questo Puta-Club, il locale con le escort dove Mario sarebbe andato, senza però mostrare il loro volto, senza indicare il loro nome? Sa di ricostruzione posticcia, per screditare la memoria di un ragazzo che non si può più difendere”.
Il giornale Il Dubbio, dal canto suo, non ha dubbi di sorta: siccome “la quasi totalità del giornalismo italiano ha cavalcato le legittime convinzioni dei famigliari”, non è un caso che il docufilm firmato dal regista Marìa Pulido sia stato snobbato da grandi giornali o criticato – almeno finora – nei piccoli”. A scriverlo, il 9 agosto, è Damiano Aliprandi, parteggiando per la serie Netflix. Anche perché, a suo avviso, impreziosita dall’intervista a Selvaggia Lucarelli, che secondo Aliprandi ha “giustamente osservato” che “non esiste un vero giornalismo di inchiesta giudiziaria”. Sia chiaro: “non c'è nessuna delle tante teorie riportate in questi dieci anni che non viene trattata dalla serie, nessuna delle ipotesi lanciate dalla famiglia che venga omessa”, tuttavia, prosegue l’articolista del Dubbio, “adottando un approccio scientifico, la serie ha fatto emergere una realtà completamente diversa”. Realtà finora non conosciuta in Italia perché i giornalisti, da noi, “non studiano realmente i documenti, ma si concentrano sull'intrattenimento”. In sintesi, “è stato necessario l'intervento di osservatori stranieri per far emergere ciò su cui Il Dubbio contrasta da anni”. La desolante verità, conclude Aliprandi, è che il giornalismo di inchiesta è “morto da tempo in questo Paese”, e “bisogna affidarsi ad altre serie straniere come questa. A noi, in fondo, manca una regista come María Pulido”. Un po’ di lavoro di scavo andando oltre il caso Biondo in sé, in realtà lo hanno fatto proprio Le Iene il 30 luglio scorso, con uno speciale “Inside” in prima serata, firmato da Roberta Rei e Francesco Priano, dedicato all’Emme Team. A spiegare di cosa si tratti è stato anche il Corriere della Sera l’8 agosto, con un pezzo online dal titolo “Emme Team di Mirko Zeppellini, cos'è e cosa c'è dietro la società tornata alla ribalta per il caso Biondo”. Nell’articolo, si legge che la docuserie spagnola e l’inchiesta de Le Iene “hanno una cosa in comune”, ossia proprio l’Emme Team. Scrive il Corriere, riprendendo in sostanza Rei e Priano, che si tratta sia stato snobbato da grandi giornali o criticato – almeno finora – nei piccoli”di “una società investigativa con sede negli Stati Uniti che su Facebook dice di fornire «consulenze legali e investigative contro il revenge porn e stalking» finito anche al centro di un'inchiesta della giornalista Selvaggia Lucarelli che in un primo articolo pubblicato nel 2020 su TPI aveva iniziato a sollevare numerosi dubbi sui servizi che il gruppo aveva fornito nell'ambito di celebri casi di cronaca come la morte di Tiziana Cantone e l'omicidio di Marco Vannini”. Tra le “varie attività a loro attribuite”, ci sarebbe anche “l’aver messo in discussione che Mario Biondo si sia suicidato, dichiarando che invece potrebbe trattarsi di omicidio dopo aver controllato gli indirizzi ip di chi ne gestiva i profili social”. Dietro la società ci sarebbe un “uomo misterioso”, un “certo John peschiera alias Mirko Zappellini”, che “non mostra mai il proprio volto, nemmeno se contattato in videochiamata”, mentre il “frontman” è “l’avvocato partenopeo Salvatore Pettirossi”, che siano esse di “curiosità o perplessità” sul “metodo Emme”. Curiosità e perplessità, a voler usare un eufemismo, che spiegano l’altissimo grado di interesse rinfocolatosi in questi giorni, complice il film su Netflix, sul caso Mario Biondo.