Manipoli di influencer in pigiama hanno invaso le nostre bolle social. La carica dei 100mila (follower per cranio) a coppie di due, tutti avvinghiati l’uno all’altro nella prestigiosa location del lettone king size di una suite d’hotel extra-lusso, non ci ha dato pace alla vigilia di San Valentino tra lenzuola in seta, petali di rosa sparsi, calicini di champagne e allure molto chic. C’era tutto per pensare a una promiscua nottata di bagordi a fare a gara chi ce l’ha più lungo (il K di follower), peccato solo l’hashtag #adv. Gli scatti, tutti identici per palette e posa, avrebbero già dovuto farci sospettare che di marchetta si trattava e, infatti, il 14 febbraio, emerse chiaramente che marchetta fu. Oggetto di cotanto battage, una nuova serie Netflix nata in Italì dal titolo Fedeltà in uscita nel giorno della festa degli innamorati per ricordarci, come da sibillino claim, che “chi ama si tradisce”. L’esercito di seguitissimi “ma chi?” impiegati per dare visibilità al progetto, progetto che ha per attori protagonisti il giovane Montalbano Michele Riondino e la ragazza della nebbia Lucrezia Guidone, ci stava già implicitamente fornendo l’impression che la serie avrebbe avuto lo stesso peso specifico e tasso di memorabilità di un like da parte del classico follower dalle Isole Fiji. Invece, dopo esserci sciroppati tutte e sei le puntate del prodigio in questione, siamo convinti che almeno una cosa, questa Fedeltà, pur avesse da dirci. Ovvero sia che se tradire fosse davvero così noioso, nessuno lo farebbe più.
Tratta dall’ultimo, omonimo romanzo di Marco Missiroli (già due premi Campiello in saccoccia), la trama di questo insostenibile melò a episodi è presto detta: Carlo (Michele Riondino) e Margherita (Lucrezia Guidone) sono una piacente coppia di sposi che vive in un monolocale (anche se, eccezion fatta per il bagno bonsai, pare la reggia di Versailles versione hipster-meneghina) in zona Paolo Sarpi, Milano. Lei agente immobiliare, lui professore universitario, scrittore ma anche copywriter e ragazzo alla pari (trovate l’intruso), i due s’amano, s’accoppiano appassionatamente, valutano di trasferirsi in una casa più bella, grande, luminosa. Questo finché la giovane studentessa Sofia (Carolina Sala) non comincerà a turbare l’occhialuto prof Carlo tramite il fascino della parola scritta: i vari saggi e racconti che l’insegnante le assegna di settimana in settimana, lo attizzano intellettualmente come fossero lussuriose guepiere sbadatamente lasciate in bella vista e, sì, questi sapiosessuali sarebbe meglio che continuassero a fare queste noiosissime copule-non-copule a casa loro. O, quantomeno, non su Netflix. Che ci sono i bambini. O se non altro chi ha superato la terza media da un pezzo e, eresia, vorrebbe gustarsi in una serata di relax gli intrecci di una storia (d’amore e/o di sesso) che non scomodi Proust e Foster Wallace nell’attesa di Godot.
Invece, a quanto pare tanto (poco) ci meritiamo. Nemmeno l’impegno del pur bravo Riondino riesce a tener su una trama il cui appeal è pari a quello di un rosario parrocchiale in diretta streaming sul canale youtube della diocesi. Inoltre, quel poco di sinossi che pur scalpita per sopravvivere, viene perennemente ammorbata da dialoghi avvilenti per la comunicazione umana stessa e, soprattutto, da attese e sospensioni. Incontabile, il numero di scene mandate al macero per privilegiare sessioni di languidi sguardi tra i personaggi (sì, anche la moglie Margherita a una certa si troverà un filarino - fortunatamente meno intellettuale) accompagnati da una selezione musicale, quella sì, davvero interessante (vi segnaliamo, tra gli altri, una versione di Stavo pensando a te - Fabri Fibra - re-interpretata da Fulminacci e Mobrici che dona nuova luce a un pezzo già formidabile). Insomma, se questa Fedeltà fosse stata - solo - una playlist, Arisa a parte, non avremmo avuto nulla da eccepire.
E invece, pare che questo sia l’amore (e l’amorazzo) che ci meritiamo post (si spera) pandemia: intellettualoide, ragionato, immaginato, silenzioso, non detto, pavido, pavidissimo, nascosto in piena vista. Non veniteci a dire che il problema sia il tema, il fatto che “noi italiani” solo di sentimenti sappiamo parlare: sulle corna si basano fior fior di titoli che ci hanno avvinghiati allo schermo come se le storie lì sopra raccontate ci riguardassero personalmente, anzi, in alcuni casi, abbiamo dimenticato che quelli fossero personaggi fittizi accogliendoli in famiglia più dei nostri stessi parenti. Non serve menzionare This is us, su tutti, ma per non fare troppo quelli che Americans do it better, noi, la generazione cresciuta a pane, Sentieri e Dallas (o Beautiful), siamo rimasti appesi di settimana in settimana, in tempi recenti, nell’attesa di scoprire gli sviluppi di intrighi e beghe famigliar-sentimentali della ciurma di A Casa tutti bene, la ricchissima serie Sky firmata da Gabriele Muccino. E chi dice il contrario, si merita l’anemica compostezza dei sapiosessuali di cui sopra.
Insomma, prima di scalpitare, di chiedere a gran voce l’avvento di serie nostrane fantascientifiche o dagli effetti stroboscopici rutilanti (si sente ancora l’eco del fragoroso capitombolo della serie “Christian”, nelle intenzioni il nuovo messianico franchise di casa Sky), proponiamo umilmente un lento ma ostinato e insaziabile ritorno alla stesura di sceneggiature degne di questo nome. A tema libero, per carità. Che sia l’amore, il crimine, l’incredibile storia del calzino destro di un regista in odore di Oscar o l’infame vita di un precario senza speranze. “Alla fine dei conti, siamo tutti storie”, diceva qualcuno. Solo che gli sceneggiatori nostrani - salvo eccezioni come gli eroi che hanno scritto Monterossi (Prime Video) - per un motivo o per l’altro, non si lasciano scappare occasione per dimostrare di aver perso l’empatia, la voglia, l’interesse di raccontarle come se fossero vive. Se pure un bel paio (doppio) di corna e amor proibiti va bene giusto come sottofondo per girare il brodo di una mesta serata infrasettimanale, è proprio vero che, ancora una volta, si tradisce chi ama (le serie tv).