“Io ci sono eh, possiamo cominciare quando vuoi, Emilià”. Massimo Vanni e la sua incrollabile coolness romanesca. Lui, born in Corso Trieste, “accanto alla famosa scuola “Giulio Cesare”, l’avrai sentita nominare da Antonello Venditti”. Lui, classe 1947, che qualche giorno fa si aggirava come i grandi, affabile e mai scomposto, occhialoni neri e pettinatura perfetta, fra gli appassionati che sono accorsi a frotte all’ultima edizione di “Cinemarcord”, la splendida rassegna di cinema di genere organizzata dall’implacabile staff di Bloodbuster. Lui, Vanni, che un paio di anni fa, proprio per Bloodbuster, ha dato alle stampe “Mi chiamavano Gargiulo… Massimo Vanni, attore e stuntman”, autobiografia da cui ogni tanto estrae qualche perla da dare in pasto a un pubblico sempre affamato e affezionato. “Ho fatto la notte e tra poco attacco di nuovo sul set, ma sono a disposizione”. Così abbiamo approfittato della gentilezza dello stuntman (“ma anche maestro d’armi”) più famoso d’Italia per provare anche noi, per una mezz’oretta abbondante, il brivido di scorrazzare, seppur solo a parole, fra Enzo G. Castellari e… Brad Pitt.
Hai fatto la notte, dici? Ti sarai mica trasformato in un guardiano del faro, vero?
Ma no, sono sul set di un film d’azione, “Codename Fury”. Il regista è Giuliano Emanuele. Giriamo anche di notte (dalle 19 alle 2, grosso modo) in questa bellissima villa – Villa Piccolomini – sull’Aurelia. Sto coordinando tutte le azioni: le botte, le sparatorie.
Nei tuoi film ne hai date tante, di botte, ma quando, sul set, ti è capitato di vedertela brutta perché magari qualcosa, a livello tecnico, non ha funzionato?
Beh, c’è un episodio… Sono felice di essere ancora qui a raccontarlo, ma non lo dimenticherò mai. Doveva essere il 1988, stavamo girando “Zombi 3” di Lucio Fulci nelle Filippine. A un certo punto mi trovo a dover combattere contro una turba di zombie. Dovevo farli fuori tutti, uno dopo l’altro, come fossi stato Nembo Kid. A un certo punto mi dovevo aggrappare a una sbarra, collocata sopra la mia testa, in modo da darmi lo slancio e scalciare via con forza i morti viventi. Così faccio, ma per qualche ragione la sbarra si stacca nel momento in cui mi trovo con il corpo allungato, orizzontale. Parallelo al terreno. Mi schianto a terra da due metri e mezzo, violentemente. Cado secco sulla schiena. Una volta a terra, con un po’ di mestiere, muovo la testa verso lo sterno, se fossi rimasto fermo probabilmente mi sarei convinto di essere morto. Un impatto tremendo, il cuore letteralmente in bocca, l’intera troupe immobile, gelata.
Che ne è stato di te?
Eravamo a cento chilometri circa da Manila, troppo lontana la città. Così mi hanno portato in un piccolo ospedale da ottavo mondo in cui – Dio solo sa come – sono riusciti a farmi una radiografia. Nulla di rotto, però ero a pezzi. Mi sono sentito protetto dall’alto dei cieli.
Hai fatto dei corsi specifici per evitare di frantumarti come un grissino ogni volta che qualcuno ti scagliava contro un muro? O magari per imparare a guidare le auto nel modo disinvolto che ci hai tante volte mostrato?
Non proprio. Sono uno della vecchia guardia. La gente della mia generazione ha iniziato nei modi più disparati. C’era chi veniva dal circo (come il mio amico Ottaviano Dell’Acqua, i fratelli Ukmar), chi dallo sport, chi dalla strada (a tal proposito, per approfondire, recuperare assolutamente “Menamose”, libro di Steve Della Casa che passa in rassegna diversi personaggi, ormai mitologici, del cinema bis italiano anni ’60, nda). Si cominciava spesso con la passione per lo sport: la lotta, la boxe, la corsa, i tuffi. Chi di noi è rimasto “incastrato” nel cinema ha poi cominciato ad allenarsi più specificamente: per migliorare la guida di un bolide o imparare a montare un cavallo come si deve. Per essere professionisti più completi. Oggi invece ci sono un paio di istituti che sono vere e proprie scuole. Noi, decisamente più autodidatti, non contavamo su una formazione continuativa. Era tutto più selvaggio.
Chi ti ha tirato dentro nel frastornante mondo del cinema?
Il mio amico Enzo G. Castellari, al quale ero seduto a fianco, qualche giorno fa, a “Cinemarcord”. Anno 1971, “Ettore lo fusto”. Anno 1973, “La polizia incrimina, la legge assolve”. “Proviamo, Massimo”, mi disse. Facevo il cattivo. Così il mio nome iniziò a girare e… Ed eccomi ancora qui. Integro, tutto sommato (sorride, nda). Oggi credo che si lavori meglio, sai? Ci sono tante attrezzature che ti proteggono. Ovvio, devi sempre sapere cadere, essere in forma, però sei più tutelato.
Più protezioni, più tutele. Cosa pensi dei campioni del MotoGP? A volte escono indenni da voli tremendi…
Non sono mai stato uno specialista dei motori, ma torno a ciò che ti dicevo prima. Pensa a come correva il grande Giacomo Agostini. Rispetto ai campioni di oggi, era nudo. Le moto di oggi sono pazzesche e la tecnologia pure. Guarda alle imbottiture. Noi andavamo a fuoco vestendo le tute d’amianto.
Le tute d’amianto?
Quando in una scena dovevo prendere fuoco, sotto mi mettevo una maglia di lana bagnata. Sopra la maglia, una tuta d’amianto, che oggi sarebbe assolutamente fuori legge per via della salute. Infine sopra la tuta, di una taglia almeno più grandi, i costumi di scena. Poi, una volta pronti… Motore, azione, e ci davano fuoco! Per avvisare i colleghi di venire a spegnerci, ci gettavamo a terra. Adesso ci sono dei gel potentissimi da spalmare sulla pelle. Non durano minuti, ma per quindici-venti secondi possono bastare. Le tute di oggi, poi, sono molto più sottili di prima. Scusa, mi sono reso conto di aver divagato, posso tornare a parlare di moto?
Certo.
Beh, sono l’orgoglioso proprietario di una moto d’epoca, una Guzzi 1000 idroconvert del 1974 con la quale ho girato alcune scene a fianco di Tomas Milian (doveva essere “Squadra antifurto”. O forse “Squadra antitruffa”, ora non ricordo). Credo che questo modello abbia avuto più fortuna negli States che in Italia. La tengo gelosamente, avrà fatto 40mila chilometri a dir tanto.
Alla luce di ciò che hai detto finora, mi viene da dubitare di Tom Cruise. Quando per esempio dice che le scene action le gira tutte lui, senza aiuto da parte di un Vanni americano.
Tutte forse no, ma l’80% credo di sì. E sai perché? Perché oggi prima di fare un salto da un aereo o tirare di spada, studiano tutto nei minimi dettagli. Cruise conta su budget altissimi, quando salta da una rupe con una moto significa che quella scena l’hanno studiata giorni e giorni prima che il buon Tom muovesse anche solo un dito. Lui però se la rischia, è bravo. È uno di noi. Per “L’ultimo samurai” (2003) si è fatto otto mesi in Giappone tra spade e katane.
E Brad Pitt, che per “Apex”, il film sulla Formula 1 di Joseph Kosinski, ha già girato alcune scene durante il GP di Silverstone (l’attore americano era anche a Monza, dove è stato protagonista di una fugace apparizione)?
Parliamo di fuoriclasse. E, ribadisco, di budget esorbitanti e tecnologie importanti. Contesti in cui nulla è lasciato al caso. Dove le produzioni ti istruiscono, ti preparano, ti proteggono.
E tu ti sei sentito protetto dalla magia del cinema, prima ancora che dalle tutele di una produzione seria?
Sì. E se mi parli di magia vado dritto a “Gangs of New York”. Quando mi trovai nella New York di fine Ottocento ricostruita a Cinecittà dal grande Dante Ferretti, vincitore di vari premi Oscar, ho capito davvero quanto fosse grande il cinema. C’era anche il porto con i galeoni. La neve finta. Sai, narrativamente si attraversavano tutte le quattro stagioni. Scenografie memorabili che mi sono rimaste dentro. Sia chiaro, questo ricordo non toglie nulla al cinema che più mi ha rappresentato, quello di Franco Nero, Tomas Milan, Fabio Testi, Maurizio Merli. L’azione è ciò che mi fa pompare il cuore.